DAGOREPORT - MA QUALE TIMORE DI INCROCIARE DANIELA SANTANCHÈ: GIORGIA MELONI NON SI È PRESENTATA…
Fabio Poletti per "La Stampa"
In treno, in traghetto e poi in taxi. Da Milano a Lecco, da Lecco a Milano, poi fino a Venezia ancora in treno, in vaporetto verso il Lido e di nuovo a Milano in taxi. Tutto in dodici ore come due turisti frenetici. Sempre con quel trolley accanto, da trascinare con fatica all'andata e poi molto più leggero al ritorno.
Leggero lui e apparentemente leggeri loro, Rajeshwar Singh, 29 anni, indiano, e la sua fidanzata Gagandeep Kaur, un anno di più, indiana pure lei. Sicuri che quella doppia gita apparentemente romantica malgrado il maltempo, prima sul Lago di Como poi verso la Serenissima, fosse la cosa migliore per sbarazzarsi del corpo di Mahfab Ahadsawoji, 29 anni, iraniana, la studentessa di Belle Arti all'Accademia di Brera che avevano ammazzato al pomeriggio, trascinata per dodici ore in valigia come nel film «The innocent» tratto dal libro di Ian McEwan, e riaffiorata martedì scorso in Laguna vicino all'attracco dei motoscafi taxi di calle Loredan.
A Venezia, quando hanno trovato il corpo, nudo e solo con una collana indosso, temevano che questa storia diventasse un «cold case», una di quelle storie impossibili che ci vuole più di un colpo di fortuna per districare. «Ma quando hanno confessato hanno ammesso di essersi fatti prendere dal panico», assicura il capo della Mobile di Milano Alessandro Giuliano che in meno di una settimana e col suo collega di Venezia Marco Odorisio ha risolto il caso.
Un caso alla fine facile perché i due indiani nelle dodici ore in cui hanno attraversato mezza pianura Padana col loro carico, hanno lasciato una montagna di indizi come Pollicino, fino alle inequivocabili immagini riprese dalle telecamere davanti alla stazione di Santa Lucia dove si vede la coppia arrancare nel buio e sotto la pioggia, trascinando il trolley ancora pesantissimo per il corpo della loro vittima. Sembra che a scatenare la furia omicida di Rajeshwar Singh sia stato il rifiuto della giovane iraniana alle sue avances sessuali.
Il giovane, insieme alla fidanzata, condivideva con Mahfab Ahadsawoji un appartamento in via Pericle alla periferia Nord di Milano. Lei era oramai esasperata al punto che il giorno stesso avrebbe dovuto lasciare l'abitazione per andare a casa di alcuni compagni di università . «Non posso più vivere lì», aveva confidato alle amiche alle quali aveva raccontato dei tentativi di coinvolgerla in un rapporto sessuale di gruppo.
Le stesse amiche che erano state le ultime a vederla viva il sabato prima a lezione di Scenografia e poi in un bar di Brera dove la giovane iraniana, in Italia da appena due mesi, andava spesso a mangiare. Le prime a dare l'allarme della sua scomparsa dopo che alle 12 e 21 di lunedì una di loro le aveva mandato un sms senza ricevere risposta. E dopo che da quel momento il cellulare della ragazza era sempre spento.
Il medico legale di Venezia dopo il ritrovamento ha accertato che la ragazza era stata sicuramente uccisa. Forse soffocata, magari con un cuscino. Nei suoi polmoni non c'era traccia di acqua compatibile con l'annegamento. Sul corpo nessun altro segno di violenza. L'identificazione era avvenuta grazie alle impronte digitali, prese in aeroporto al momento dell'ingresso nel nostro paese due mesi fa, quando la ragazza aveva iniziato i suoi studi all'Accademia di Brera. Le indagini in contemporanea tra Venezia e Milano sono andate assai veloci. Gli investigatori prima hanno sentito i suoi compagni di università .
Poi sono andati a casa della coppia di indiani a sequestrare il computer della giovane nella speranza di trovare magari traccia di qualcuno che l'avesse agganciata su qualche social network, l'avesse attirata in laguna e avesse poi fatto quello che ha fatto.
Ma la verità era molto più vicina. Addirittura a portata di mano. Con un cumulo di versioni che la coppia di indiani ha cercato di rifilare agli investigatori cercando di costituirsi un improbabile alibi. Prima raccontando di averla lasciata ubriaca di whisky lunedì mattina. Poi ammettendo che era morta per il troppo alcol ingerito ma non l'avevano uccisa loro.
Alla fine confessando che per il panico l'avevano infilata in un borsone con le ruote ed erano andati fino a Lecco in treno sperando di gettarla nel lago. Cosa non riuscita per la troppa gente. Da qui il ritorno a Milano e la salita sul primo treno per Venezia, città che conoscevano bene per avere lavorato come camerieri in alcuni hotel. Per poi tornare a Milano nella notte in taxi, pagando 500 euro, con il trolley finalmente leggero e la coscienza sempre più pesante.
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