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Giampiero Mughini per Dagospia
Caro Dago, la tumulazione del milite ignoto all’Altare della Patria di Piazza Venezia avvenne il 4 novembre del 1921, a tre anni dalla vittoria italiana nella Prima Guerra mondiale. Molto toccante il film di Francesco Miccichè - “La scelta di Maria” - andato in onda ieri sera su Rai 3 e dedicato a come ci si arrivò a quella che è stata la più importante manifestazione italiana nel ricordare la tragedia della Prima guerra mondiale, nel commemorare quelli dei nostri che erano caduti in un guerra fatta di uomini, di volti concreti, di gesti che restarono nella memoria dei sopravvissuti.
Erano dei sopravvissuti quelli che avevano visto cadere il figlio di Maria Bergamas, la donna triestina che venne scelta ad essere lei quella che, messa di fronte a undici bare che contenevano tutte i resti di soldati italiani non identificati, doveva indicare la bara da tumulare all’Altare della Patria e magari in quella bara poteva esserci suo figlio. Il quale era partito da volontario oltre che da triestino il quale se catturato dagli austriaci sarebbe stato impiccato perché disertore.
I suoi compagni d’arme ricordavano che lui andò all’ultimo assalto ancora da volontario, sostituendo un altro soldato italiano che aveva moglie e figli. Dopo di che di lui non si seppe più nulla. Magnifica l’interpretazione di Sonia Bergamasco nel rendere l’inane sofferenza di Maria Bergamas. I testimoni racconteranno che nello scegliere la bara lei ebbe come un brivido, come se per un attimo fosse stata sicura che la bara che aveva scelto era quella che conteneva le spoglie del figlio.
Sia detto tra parentesi in un primo momento i socialisti e i comunisti italiani del tempo non videro di buon occhio quella sontuosa manifestazione. Che ai loro occhi appariva come un’esaltazione della guerra e dunque delle sue bestialità. Non capivano che era tutto il contrario, che quella manifestazione esaltava la memoria dolorante della tragedia e dunque la speranza che mai più dovesse ripetersi. I sopravvissuti raccontavano per filo e per segno i momenti in cui erano andati all’assalto, i compagni d’arme che cadevano a mucchi, quelli che si davano a tagliare i reticolati che proteggevano le trincee austriache per poi essere colpiti a loro volta e morire avvinghiati al filo spinato.
Erano visibili i loro corpi, i loro gesti, i loro volti, le loro urla mentre morivano. Il fratello di mio nonno, un ufficiale medico, avanzò nella terra di nessuno per andare a proteggere dei feriti. Venne colpito alla schiena e rimase paralizzato per oltre trent’anni. Io ragazzino lo incontrai una volta e ancora mi vergogno di non aver saputo dirgli nulla. Lo incontrassi per come sono oggi, mi inginocchierei innanzi a lui. Era stata una guerra a misura d’uomo che non aveva niente a che vedere con le immagini e le tragedie dell’odierna Ucraina, dove arrivano missili che polverizzano tutto quello che incontrano.
I soldati bruciano vivi nei carri armati, altro che cadere morti sul filo spinato dove li vedevano i loro compagni che continuavano l’assalto. Altro che gesti da ricordare e volti nel momento in cui vengono straziati e cadaveri riconoscibili. Premi un pulsante e ad alcune decine di chilometri cadono giù pezzi di mondo. Un’intera nazione è in corso di distruzione, intere città rase al suolo. Orrore orrore orrore. Quando finirà?
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