DAGOREPORT – AVVISATE IL GOVERNO MELONI: I GRANDI FONDI INTERNAZIONALI SONO SULLA SOGLIA PER USCIRE…
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Federico Ercole per Dagospia
C’è un breve preludio, un evento drammatico introduttivo che si scatena laggiù nel profondo. Poi camminiamo per una soffocante, stretta caverna, miserabili e depotenziati con il passo degli sconfitti, in cerca di un’uscita e del bagliore di una luce che ad un certo punto intravediamo esile, poi fissiamo quasi accecante. La superficie è vicina, pensiamo, dopo tutte quelle sotterrane tenebre.
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Ma quando usciamo non c’è la concretezza vitale della terra sotto i nostri piedi, si spalanca invece un abisso, una vertiginosa vastità aerea che dapprima ci terrorizza con il suo vuoto troppo lucente e dopo ci meraviglia così che proprio in questo momento, di fronte ad un’immensa e ingannevole vacuità, si attua quella riconoscibile ma sempre sconvolgente malia dell’identificazione implicita nel nome di Link, il nostro contenitore in questa incipiente avventura nell’altrove, il “Legame” è ancora una volta stabilito stordendoci con rara potenza tanto da farci sostare a lungo mirando quelle vastità celesti prima di saltare verso il basso, di cadere giù, laddove cominceremo davvero a scrivere la nostra nuova leggenda di Zelda.
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Abbiamo giocato solo una ventina di ore a Legend of Zelda Tears of the Kingdom appena uscito per Nintendo Switch, tuttavia si è trattato di un tempo ludico così saturo di suggestioni, gioco e contemplazione da ispirare questi primi e necessari pensieri prima di portare a termine un’avventura (altre parole giungeranno qui allora) che si sta rivelando vasta e intima, tanto da illuderci nell’arco favoloso della sua durata, che ogni altro videogioco passato o venturo, anche il più bello e ispirato, possa essere superfluo cosa assai rara nella storia del medium.
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Non si tratta appunto che di un’illusione, ma è la stessa che è possibile abbia provato il pubblico presente alla prima rappresentazione di Tristano e Isotta, il pensiero magnifico e transitorio che, dopo, nulla sarà più lo stesso e ciò che era prima appare sfocato, accessorio. La magia, il bellissimo inganno delle grandi opere d’ingegno. Anche Legend of Zelda Breath of the Wild, del quale Tears of the Kingdom è lo smisurato seguito, ha posseduto il carattere rivoluzionario e definitivo di quell’opera di Wagner, ma è cosa sconvolgente come quest’ultima Leggenda, ispirandosi comunque alla sua origine, risulti un gioco ancora più radicale e avveniristico di quel capolavoro.
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Legend of Zelda Tears of the Kingdom non inventa una nuova forma del videogioco e neppure un nuovo linguaggio ma sublima e raffina un idioma tanto da indurci a vedervi un nuovo vocabolario, un’origine con la stessa solo apparente semplicità di un tema mozartiano.
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L’ARTE DI INSEGNARE (A GIOCARE)
Le prime ore nei panni ancora poveri di Link percorrendo terre fluttuanti non sono che un prolungato “tutorial”, ma non lo sembra affatto, mimetizzando la spiegazione delle nuove regole del gioco in un tessuto già avventuroso, dissimulando la sua lezione per il novizio. Ci sono così tante idee -che nel giocatore smuovono altre idee senza imporsi ma per ispirarlo- da potere riempire con una sola di queste un intero videogioco di decine di ore.
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Così cominciamo ad esplorare queste lande sospese con la lentezza e lo sgomento di naufraghi su un’isola deserta e apprendiamo come costruire oggetti assemblandoli con una verde colla magica, a unire due armi insieme o a sperimentare che risultato ludico determinerà quel fungo se applicato alla punta della freccia o allo scudo. Costruire è un’attività che risulta immediata e funzionale nelle sue dinamiche, ma da subito rivela la sua profondità e le possibilità innumerevoli, un vettore eccezionale per la creatività e per il desiderio di sperimentare del giocatore. Inoltre tutto ciò che si assembla, piccolo o enorme che sia, è sottoposto a quelle realistiche leggi della fisica già implementate in Breath of the Wild, ed è quindi soggetto alla gravità, all’attrito del vento, alla corrente delle acque.
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Ci sono già i primi combattimenti, ma sono rarefatti (anche quando scenderemo su Hyrule) e mai intrusivi, non turbano l’esplorazione, la quiete del pensiero inventivo ed estroso o il rapimento provocato dalla bellezza di panorami che rimandano ai disegni di un “anime”, Laputa soprattutto e dopo la Principessa Mononoke ma con qualcosa di inspiegabilmente ellenico.
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Più avanti ci saranno persino corrispondenze con Death Stranding di Hideo Kojima che con Breath of the Wild è stata la grande produzione (si tratta comunque di colossal, non di piccole ma seminali opere indipendenti) più innovativa degli ultimi anni e non solo perché mani oscure e pericolose si alzano dal suolo intossicato provocando quei brividi aptofobici già sperimentati nel gioco di Kojima ma per le qualità di Link come messaggero e viaggiatore, per il suo muovere gravi carichi sempre a rischio di squilibrio.
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Una volta finita quest’educazione pratica (e sentimentale) scenderemo a Hyrule, così diversa e simile da quella navigata in Breath of the Wild che un’immediata nostalgia per il passato e un vago déjà-vu cedono alla sorpresa, al piacevole sconcerto di fronte a qualcosa di nuovo e immenso.
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Così come in Breath of the Wild è lo sguardo che determina la direzione, tanto che la mappa risulta opzionale; dirigetevi dove vi spingono i vostri occhi, verso la direzione indicata dalla volontà di avventura, perché ci saranno sempre una scoperta, un’emozione, un’occasione di inventare e di mettervi in gioco secondo delle regole che non vi imprigionano ma liberano la fantasia di ciascuno senza che le ore risultino perdute e sprecate ma espanse e arricchite in un sublime “ralenti” verticale che si eleva dall’implacabile scorrere orizzontale del tempo, fino quasi ad astrarre dalla dittatura di Chronos come solo l’arte o l’amore possono.
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