DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
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Sarà una Pasqua di passione in casa Muti. L’altra sera alla Scala, alla prima del “Guglielmo Tell” di Rossini, la regista Chiara Muti, figlia di cotanto maestro ex direttore musicale al teatro del Piermarini per vent’anni, è stata sonoramente buata e fischiata.
Già prima dell’inizio del secondo atto, dal loggione Marco Vizzardelli (ormai passato alle cronache della Sinistra perché gridò alla prima “Viva l’Italia antifascista” contro La Russa) ha affermato a voce alta: “Il maestro Mariotti ha fatto miracoli, ma con questa regia sarebbe meglio fare un'esecuzione da concerto”.
L’affermazione è stata subito seguita da buu, ma anche un insulto dalla platea rivolto al Vizzardelli: “cretino”. Dopodiché, durante l’intervallo, Vizzardelli, questa volta non sarebbe stato avvicinato dalla Digos, ma da sostenitori della regista con fare – diciamo così – severo e dissenziente. Chi siano stati non lo possiamo sapere; in teatro erano presenti, piuttosto agitati alla fine dello spettacolo, sia Alessandro Ariosi, agente di Chiara Muti e già loggionista ai tempi del padre, e il di lei marito, il pianista David Fray. All’uscita finale altri buu, ma la regista ha mostrato garbo e signorilità verso il pubblico. Del resto, aveva dichiarato di essersi ispirata a “Metropolis” di Fritz Lang, una soluzione un po’ scontata. Quindi scene buie e totale assenza di elementi illustrativi.
Ma se la regista figlia non ride, le dichiarazioni del padre (o di “Repubblica”?) fanno piangere. In una intervista al quotidiano il maestro (che è figlio di un carabiniere) ricorda con la solito cipiglio fanfarone che, ricorrendo gli ottanta anni dall’eccidio delle Fosse Ardeatine ha deciso di portare la sua orchestra Cherubini, affiancata da elemento della “magnifica Banda dei Carabinieri”, per dirigere una sinfonia di Schuman.
“Nel mio calendario pur fittissimo – sottolinea il maestro apulo-napoletano – partirò per il Giappone due giorni dopo e poi andrò a Vienna per dirigere la Nona sinfonia di Beethoven 220 anni dopo la prima esecuzione”. Ma come, maestro? Lo sanno tutti che quest’anno si celebrano i 200 anni dalla prima esecuzione (1824) non i 220!
Alberto Mattioli per “il Foglio” - Estratti
Il Guillaume Tell di Rossini, officiato mercoledì alla Scala, è un sequestro di persona doppiato da una sindrome di Stoccolma. Nel senso che si entra in teatro alle 18.30 e se ne esce alle 23.45 (e dire che c’è anche qualche piccolo taglio), ma l’opera è di una tale sconfinata grandezza che te ne reinnamori ogni volta. Un giorno bisognerà indagare perché i due capolavori massimi dell’Opéra siano stati entrambi scritti da italiani e perché i capolavori dei due massimi operisti italiani siano due opere francesi come il Tell e il Don Carlos. In ogni caso, questo è il Guillaume Tell di Michele Marotti e, in assoluto, il migliore mai ascoltato alla Scala o altrove.
(...) A Mariotti hanno anche servito una buona compagnia, in un’opera che dal punto di vista vocale è notoriamente impossibile. Michele Pertusi aveva debuttato il rôle titre ventinove anni fa, e oggi continua a cantarlo con la stessa morbidezza, eleganza e apparente (ars est celare artem) facilità, il che è già miracoloso: l’interprete è però incomparabilmente più intenso. Dmitry Korcak ritorna vincitore dalla parte impossibile di Arnold, emettendo tutti i previsti sovrumani sopracuti, mentre per Salome Jicia, Mathilde, è perfetta la definizione di un finissimo scaligero: ottima primadonna in un secondo cast.
Eccellenti i comprimari in un’opera corale come poche.
Ha fatto invece molto discutere la regia di Chiara Muti, e si tratta di un eufemismo per le furibonde risse verbali fra opposte fazioni che sono, com’è noto, una specialità della maison, molto divertenti a patto di non esserne l’oggetto. La produzione nuova sembra vecchia, com’è tipico di questi tempi alla Scala, forse perché è un bignamino dei Tell più apprezzati del passato prossimo.
L’idea di partenza è giusta: la libertà, in quest’opera della Restaurazione, non va intesa in senso politico, ma come ritorno a un ordine “naturale” delle cose, si direbbe divino, infranto dalla Rivoluzione. Lo scontro non è quindi fra conservatori e ribelli, ma fra bene e male. Però la realizzazione è di una banalità didascalica e manichea sconcertante, a partire dall’ipotesi che il male sia l’alienante sudditanza tecnologica che induce gli svizzeri oppressi a non staccarsi mai dai loro tablet, mentre gli austriaci oppressori distribuiscono full time frustate e ghigni satanici.
Nell’horror vacui della regia si affastellano continue citazioni, da Metropolis ai sette peccati capitali (invece il tiranno Gesler è un incrocio fra Cappuccetto rosso e la Morte del Settimo sigillo) e nessuno resta mai solo, nemmeno quando dovrebbe cantare i suoi soliloqui in splendida solitudine.
Il tutto in una specie di fabbrica dov’è saltata la corrente: ma quattro ore di spettacolo sempre al buio sono francamente troppe. Il momento migliore è il divertissement del terz’atto, benché copiato dalla celebre produzione di Vick, con gli austriaci in abito da sera che infliggono le 120 giornate di Sodoma ai poveri svizzeri, anche perché le coreografie di Silvia Giordano sono assai belle: ma è quello che più ha scatenato le ire del pubblico. Il mestiere insomma c’è; c’è però troppo di tutto, e quasi tutto è di troppo.
Alla fine, fra gli applausi con punte di delirio per i due Micheli (Mariotti & Pertusi), la regista è stata accolta da una compatta salva di buu! come raramente ho sentito alla Scala. Lei è però uscita da sola, si è presa i suoi bravi fischi senza fare un plissé, e poi ha chiamato i suoi collaboratori che a loro volta si sono fatti massacrare con il sorriso sulle labbra. Chapeau.
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