Antonio Gnoli per “la Repubblica”
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Forse questo incontro dovrebbe cominciare con una richiesta per danni verso tutti quei gastronomi, gastrosofi e chef che dilagano nel paese. Sorride, mentre un po’ per celia gli suggerisco di costituirsi parte civile in un processo alla cucina italiana, rea di eccesso di protagonismo. «Sì è vero c’è qualche eccesso», riconosce Corrado Barberis che vado a trovare nella sua casa romana, dove vive in un ambiente fermo agli anni prima della guerra.
«Ma dopotutto parlare di cibo, diffonderne la cultura anche con qualche fraintendimento o protagonismo è un bene. Lo è anche per me, per la storia di uno che per tutta la vita si è battuto per la difesa dei prodotti tipici italiani».
Pochi conoscono quest’uomo, ormai quasi novantenne, che ha dedicato studi fondamentali alla storia del paesaggio agrario e per primo ha immaginato una specie di “anagrafe” dei grandi e unici prodotti italiani: dai salumi ai formaggi, dall’olio ai vini.
Come le è venuto in mente di occuparsi di cibo? Non c’era ancora una tradizione, una strada segnata.
«La tradizione bastava scoprirla. Era sotto gli occhi di tutti. Ma negli anni Cinquanta le migrazioni verso il nord industriale, il tramonto del mondo contadino e il trionfo dell’urbanizzazione impedirono che se ne prendesse coscienza. C’era il mito della plastica, e restammo orfani della terra. Immodestamente fu l’Insor – il mio istituto nazionale di sociologia rurale – a lanciare negli anni sessanta il grande tema del cibo. E legarlo non solo alla qualità ma anche al territorio».
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L’Istituto quando nacque?
«Nel 1959, lo fondò Giuseppe Medici, un democristiano di origini liberali profondamente legato ai problemi della terra. Fu lui ad affidarmi la direzione».
Quale esperienza vantava?
«Dopo una partecipazione attiva alla vita politica, sono stato anche vicesegretario provinciale della Dc, decisi di dedicarmi allo studio del paesaggio agrario. È singolare che in origine i miei studi erano totalmente differenti».
Differenti quanto?
«Venivo dalla francesistica. All’università mi specializzai nei classici francesi del Seicento, in particolare Jacques- Benigne Bossuet, un vescovo e teologo celebre per i suoi sermoni. Fu precettore del Delfino di Francia e difensore della monarchia come diritto divino».
Un baluardo dell’ortodossia cattolica.
«Lo fu con convinzione al punto da tentare di revocare l’editto di Nantes, con cui si sanciva la libertà di culto, anche per i protestanti».
Fu anche avversario di Cartesio.
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«Però dialogava con Leibniz. Sapeva scegliersi i nemici. Quanto a me vinsi perfino una borsa di studio per l’Olanda, grazie all’interessamento del mio professore Vittorio Lugli, ma alla fine abbandonai Bossuet e scelsi di fare politica».
Nel nome di Dio?
«Nel nome delle cose concrete. Non ho mai pensato che la parola evangelica o la Chiesa dovessero entrare negli affari terreni. La politica non ha bisogno della religione».
Però spesso l’ha usata.
«È vero e forse è stato uno dei motivi del mio precoce disinteresse. Quando mi fu offerto di occuparmi del mondo contadino pensai che mi si desse l’occasione di tornare alle origini».
Quali sono le sue origini?
«Sono una specie di “bastardo”, metà contadino, per parte paterna, metà latifondista per quella materna. Sono nato a Bologna ma le mie origini sono piemontesi. Mio nonno fu venduto come “schiavetto” a Cuneo».
Schiavetto?
«Fu ceduto dal padre, all’età di nove anni, come garzone, per sei lire. Il bambino doveva badare alle bestie. Poi crebbe e come soldato partecipò alla terza guerra d’indipendenza. Durante la battaglia di San Martino, nel 1859, rovesciò da solo un cannone austriaco. Lo promossero ufficiale. Nonno Melchiorre, nato schiavetto, morì capitano. Quell’impresa fu a lungo ricordata in famiglia. Mio padre intraprese la carriera militare, ufficiale dei granatieri, e in seguito tentò l’avventura diplomatica».
Con quali risultati?
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«Vinse il concorso nel 1928, ma avrebbe dovuto aderire al fascismo. Disse che aveva già giurato al Re e per questo venne rispedito nell’esercito. Raccontava che la prima destinazione sarebbe dovuta essere Gondar, in Etiopia. Nessuno immaginava che di lì a poco sarebbe iniziata la disastrosa avventura italiana in Africa Orientale e Gondar sarebbe diventata tristemente famosa. La battaglia di Gondar – che nel 1941 andò avanti per mesi– segnò la fine del sogno africano».
Durante la guerra a lei cosa accadde?
«Ci trovò più che impreparati inermi. Sfollammo in un paesino vicino Bologna. Arrivò l’inverno del 1943. L’anno orribile. Il 1944 fu perfino peggio. La nostra casa di campagna era stata occupata da un comando tedesco. Ci fecero sloggiare. Prendemmo le nostre cose e su dei carri provammo a tornare a Bologna. Lungo la strada mio padre si ricordò di aver nascosto un tesoretto».
E per questo tornò indietro?
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«Alcuni amici ebrei gli avevano affidato qualche gioiello e un po’ d’oro per evitare che quei beni finissero nelle mani dei fascisti o dei tedeschi. Mio padre seppellì il sacco in un campo non distante da una grande quercia. Ebbe il terrore, credo, che qualcuno scoprendo quel tesoretto e rubandolo potesse far nascere il sospetto tra i suoi amici che fosse stato lui a impossessarsene. Per questo tornò».
Riuscì a recuperare il “tesoro”?
“«Vi riuscì, sotto gli occhi del comandante scavò e recuperò il sacco. Al tedesco disse che erano beni di famiglia. L’ufficiale accettò la versione e mio padre ebbe solo la paura che ci ripensasse. Così non fu e gli ebrei, dopo il 1945, riebbero indietro i loro preziosi oggetti».
Lei cosa fece dopo il 1945?
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«Riprendemmo faticosamente a vivere. Terminai il liceo, mi iscrissi all’università e poi a seguire tutte le altre scelte: il coinvolgimento attivo in politica e infine l’impegno per la terra. Credo che tra le ragioni che mi hanno spinto a occuparmene ci fosse anche la netta sensazione che quel mondo contadino, da cui erano nate storie immense di fatica, di sopraffazioni, ma anche di gioia, dovesse essere in qualche modo ripensato radicalmente».
C’era l’eredità del fascismo che ha sempre puntato al mondo rurale.
«Ma lo ha fatto in chiave retorico conservatrice. Negli anni immediatamente dopo la guerra incombeva la riforma agraria e c’era soprattutto da rompere il monopolio terriero. Da sinistra partì il movimento dell’occupazione delle terre. Scrittori e intellettuali, come Carlo Levi e Manlio Rossi-Doria, assecondarono la spontaneità delle masse. Da destra la Democrazia cristiana tentò, in larga parte riuscendoci, di raggiungere con la riforma tre obiettivi: sconfiggere i comunisti; dare alla borghesia rurale italiana un’occasione di crescita; consentire al grande capitale industriale di intervenire nel Mezzogiorno».
Non è che alla fine il Sud ne abbia guadagnato. Era al palo dello sviluppo e lì è restato.
«Sono stati commessi molti errori e da ultimo c’era il clima in quegli anni di scontro totale tra comunisti e democristiani. Qualunque decisione, o meglio qualunque strategia, passava per il lucro elettorale.
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Non è che oggi sia diverso, ma allora un “messianismo elettorale” pervase le due grandi forze politiche. Non erano avversarie, erano nemiche. Un certo moderatismo prevalse, non c’è dubbio. Ma alla fine la riforma agraria fu un colpo di ariete, una rottura con il passato.
Si liberarono energie nuove e cominciarono a crescere e ad espandersi le aziende contadine. Se si pensa che il reddito procapite contadino agli inizi degli anni Cinquanta era la metà di quello urbano e oggi praticamente allineato, si comprende quanta strada
sia stata fatta».
Oggi c’è con un ritorno alla terra, soprattutto dei giovani, come lo giudica?
«La crisi economica di questi anni ha convinto parecchi giovani che la terra è meno dura di quanto lo fosse in passato. Del resto, la vecchia società rurale, imbevuta di gerarchie, fatta di contadini con il cappello in mano e il capo leggermente piegato è definitivamente tramontata. Ma è anche cambiata la cultura con cui si guarda e si valuta il mondo contadino».
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A cosa pensa?
«Mi viene in mente una battuta di Moravia quando nella Ciociara ironizza sui contadini: “Erano fieri delle loro uova e del loro lardo come le signore di Roma dei vestiti da sera”. Lo scrittore non immaginava che di lì a pochi decenni il cibo sarebbe diventato un fatto culturale dirompente. Una componente essenziale della storia materiale, come direbbero i francesi».
Ha conosciuto Piero Camporesi?
«Non posso dire di avere un ricordo preciso di quest’uomo che ha dedicato studi eccellenti all’alimentazione. Non c’è mai stata intimità. Non l’ho conosciuto abbastanza. Negli anni in cui avrei potuto frequentarlo mi occupavo del cibo da un punto di vista statistico e solo in seguito ne ho fatto la storia. È stato un incontro mancato. Però ricordo con gratitudine la sua introduzione al ricettario dell’Artusi».
Cosa pensa dei libri di ricette?
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«Spesso sono ripetitivi e per giunta scritti senza fantasia. L’Artusi è un grande libro, come lo è a suo modo Il talismano della felicità di Ada Boni. Questa donna fornì una speranza culinaria a tutte le spose italiane. Se Artusi è Manzoni, Ada Boni è Guido Gozzano che reinterpreta la felicità piccolo borghese a tavola. Altri ricettari non ne vedo. Carnacina non mi ha mai entusiasmato. Forse i francesi: Escoffier, Brillat-Savarin, Grimod de la Reynière. Fu quest’ultimo ad ammonire i commensali ad alzarsi da tavola con un residuo di appetito».
Dalla fame atavica alla fame controllata.
«In Occidente la fame atavica è sparita. Restano le patologie. I francesi sono stati i primi a distinguere il gourmand, ossia il ghiottone, dal gourmet, il degustatore».
Parteggia per quest’ultimo?
«Alla mia età cosa vuole che mangi ancora. Degusto».
La Nouvelle Cuisine?
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«È tramontata senza mai nascere veramente. In fondo, Voltaire definiva nouvelle cuisine la cucina settecentesca. Allora ebbe inizio la marcia trionfale delle salse».
Spesso una salsa copre più che esaltare un piatto.
«Dipende dalle proporzioni e dalla leggerezza. È una questione di equilibrio. Le confesso che prediligo la cucina povera, che può toccare vertici di incredibile raffinatezza: un flan di cavolfiore, gnocchi alle noci, riso con le castagne o le violette in brodo ancora conservano per me qualcosa di memorabile».
Cosa può insegnare un piatto?
«È fondamentale la sua storia. Se la filosofia cerca il fondamento delle cose la gastronomia ha il dovere di interrogarsi sull’origine delle ricette. Certi piatti, poi, insegnano la convivenza, pensi all’ossobuco con risotto allo zafferano: due perfezioni che si incontrano e invece di farsi la guerra si abbracciano.
Agli inizi del Cinquecento Teofilo Folengo parlando di “Alpi di formaggio” e di “fiumi di brodo”, traduceva in cibo il paesaggio mantovano. Non avrei mai pensato da giovane che il cibo avrebbe rivestito così tanta importanza nella mia vita».
E oggi?
«Oggi è tenue come il sesso. Invecchiando non si abolisce, magari lo si distorce o meglio lo si incammina su un sentierino ripido pieno di insidie e vertigini».
È sposato?
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«Lo sono stato a lungo. Alla fine vedevo riflessi in mia moglie i segni devastanti della vecchiaia, tipici di quando la malattia ti ghermisce. Ma non ho fiatato. Da buon cattolico, che va poco in chiesa e che non riesce a pregare molto, ma crede nella resurrezione dei morti, ho pensato che avere fede nella coppia fosse qualcosa di fondamentale».
Come interpreta questa fede?
«La vita di coppia è una moltiplicazione per due della propria vita».
Oggi vive solo?
«Ho la fortuna di condividere con una signora più giovane, una contessa russa, il tempo che mi resta».
Si ritiene fortunato?
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«Mi sento accettato che è già tanto, mi creda. Per me la vecchiaia, da un certo punto in poi, è stata soprattutto perdita del controllo dei propri arti. Da alcuni anni viaggio pochissimo. Mi muovo con la mente. O almeno mi illudo. Ho lasciato perdere la storia e la sociologia. Leggo poesie e scrivo epigrammi: “Invecchiare e al tuo fianco aspettare le rughe. Il caldo sole stanco che fa passe le uve”.
C’è molta quiete in queste immagini.
«È la calma rassegnazione di un abitante della terra che non ha rinunciato alla bellezza delle cose. Non so se in futuro sarà ancora così».
Futuro per chi?
«Non per me ma per gli altri. È sempre più veloce il processo di disgregazione delle cose. Dieci anni fa non avrei avuto la stessa sensazione».
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