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    NEL NAOMI DEL PADRE - DOPO I PROBLEMI DI TENUTA NERVOSA E LA DEPRESSIONE, NAOMI OSAKA TORNA A FARSI ALLENARE DAL PADRE, LEONARD FRANCOIS, DOPO IL LICENZIAMENTO DELL'EX COACH WIM FISSETTE - LA TENNISTA, SPROFONDATA AL N.41 NEL RANKING MONDIALE, STA CERCANDO NUOVI STIMOLI PER RITORNARE AD ALTI LIVELLI - LO SPORT È PIENO DI PADRI CHE ALLENANO O HANNO ALLENATO I FIGLI, MA NON SEMPRE IL BINOMIO È SINONIMO DI SUCCESSO…


     
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    Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera”

     

    naomi osaka e il padre leonard francois naomi osaka e il padre leonard francois

    «Mio padre è quel signore nell'angolo con gli occhiali da sole, anche se è buio». Ironia e sprezzo del pericolo non sono mai mancati a Naomi Osaka che a San Josè, al rientro dall'infortunio al tendine d'Achille che l'ha tenuta fuori per due mesi, si è presentata con papà Leonard nell'angolo, coach ritrovato dopo il licenziamento (non traumatico) di Wim Fissette, il tecnico belga con cui ha conquistato due titoli Slam.

     

    Se è vero che Leonard, nativo di Haiti e così largo di vedute da lasciare che Naomi assumesse il cognome della madre giapponese (Osaka come la città dove è venuta al mondo), si era innamorato dell'idea di allenare la figlia ispirandosi al modello Williams (Richard che, senza aver mai giocato a tennis, un giorno decise che Venus e Serena diventassero campionesse), questo è un caso in cui le colpe dei padri ricadono sui padri. Ma Naomi, sprofondata al n.41 del ranking e in cerca di stimoli, sembra contenta: «Cercavo nuova energia».

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    Padre allenatore e figlio allenato, il rischio è altissimo. «Lavorare insieme è caricare il rapporto di una variabile in più, non sempre positiva - spiega Marcella Marcone, psicoterapeuta e psicologa dello sport -. Impossibile non pensare a una proiezione, anche inconscia, di aspettative in un momento in cui i ragazzi cercano l'emancipazione e l'affrancamento dalla famiglia d'origine».

     

    L'irretimento è una catena invisibile: un conto - se la relazione non produce risultati - è licenziare un coach terzo, un altro il proprio padre, soprattutto se l'atleta è diventato (è il caso di Osaka ma anche di Tsitsipas e Zverev) il finanziatore dell'impresa-famiglia.

     

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     Lo sport è ricco di esempi virtuosi: Paolo Maldini chiamato per la prima volta in azzurro da Cesare, c.t. dell'Under 21, e titolare nell'Italia del padre al Mondiale in Francia '98, quello finito contro la traversa e la pelata di Blanc, e Sebastian Coe che insieme a Peter, ciclista amatoriale capace di trasferire tecniche d'allenamento innovative dal parquet al tartan della pista di atletica, ha vinto l'oro back to back nei 1500 ai Giochi di Mosca e Los Angeles, l'impresa che tra due anni tenterà anche Gimbo Tamberi, se accompagnato dal padre Marco, ex saltatore, è tutto da vedere.

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     La collaborazione, litigarella da sempre, sembrava arrivata al capolinea per inconciliabili vedute alla vigilia del Mondiale di Eugene ma poi era intervenuta la ragion di Stato e la coppia si era ricomposta. Una tregua armata, che forse reggerà fino alla fine della stagione. «Il trionfo olimpico sarebbe arrivato anche con un coach diverso? E, magari, con minore dispendio di energie? - si chiede Marcone in un esercizio di fanta-psicanalisi, certo, ma sensato -. Far funzionare un accordo di lavoro tra padre e figlio richiede uno sforzo emotivo enorme. C'è sempre la possessività del genitore, restio ad affidare il talento di famiglia a qualcun altro, magari più competente. E la resistenza del figlio a fare scelte diverse, per non deludere il genitore, con cui magari poi si ritrova sotto lo stesso tetto».

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    La francese Marion Bartoli si è annessa Wimbledon 2013 con accanto il padre Walter, che rinunciò alla carriera di dottore; ma al prezzo di gravissimi disturbi alimentari. E Andre Agassi ci insegna che il rapporto alterato con il padre Mike, l'ex pugile iraniano che lo esponeva bambino alla violenza della macchina spara-palle, ha condizionato il suo approccio al tennis: «Lo odio, ma non riesco a lasciarlo».

     

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    Regole valide per tutti non ne esistono. «Quella di base è: meglio di no. Lo sport non è solo professionismo, è evasione e divertimento: un genitore che presidia la vita del figlio, imponendogli orari e routine, può creare problematiche». Larissa Iapichino, giovane stella azzurra del salto in lungo, è davanti alla sfida: all'Europeo di Monaco, tra dieci giorni, dovrà dimostrare che affidarsi al papà Gianni non è stato un azzardo.

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