Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport
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Giovedì sera, stadio Olimpico. Trebisonda, ma poco importa. Scamiciato. Sudato. Esagitato. In una parola, felice. La sensazione? Più di una sensazione. Josè Mourinho ha ritrovato casa, senza bisogno di tornare a casa.
Il ragazzo ha messo i capelli bianchi, ne ha viste di cotte e di crude, ha avuto pagine e stravinto titoli che nemmeno una star del cinema o un monarca. Ha esplorato e conquistato mondi super chic, ma sempre con l’occhio daltonico del ragazzo che è partito un giorno da Setubal, il porto di centomila anime che ha l’odore del fiume e la luce del mare, per scrivere la sua bella e un po’ maniaca storia e tornare un giorno a Setubal. Non ne ha avuto bisogno. È arrivato a Roma. Nella città giusta, al momento giusto, l’odore del fiume e la luce del mare, ma molto di più. Una passione sotto la cenere da attizzare. Come dire, il massimo per il suo genio fuochista.
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L’altra sensazione? Molto più che una sensazione. Josè e i tifosi della Roma sono strafatti l’uno per gli altri. Una specie di mezza mela per niente platonica, per quanto è fisica. L’abbraccio che non ha bisogno di abbracciare. Il miracolo. La moltiplicazione dei tifosi. In attesa che siano pani, pesci e trofei. Erano trentamila, ma sembravano novantamila. Dopo aver invaso le loro teste al solo apparire, ancora prima al solo annuncio del nome, sta entrando nella carne e nel sangue della tribù romanista, essendo lui stesso carne e sangue da violare. Josè ha bisogno di farsi amare e rispettare, ma a una sola condizione: essere lui il primo a farlo. Che siano i suoi giocatori o i suoi tifosi.
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Il Mourinho che arriva a Roma non è lo stesso che arrivò a Milano tredici anni prima. Quello era un uomo avido di nemici, di scalpi e di trofei. Un capitano di ventura. Il suo era un pragmatismo guerriero. Era un uomo dall’occhio truce, in bilico tra il nero e il blu. Il condottiero di una banda ai suoi piedi. Quello di Roma sta tra il bianco e il rosso della fiamma. Il profeta illuminato di una comunità smarrita che aspettava solo di tornare a bruciare viva. Il suo è diventato un pragmatismo lirico. Sentimentale. Saranno gli anni, sarà la vita che scorre, sarà il bisogno di tornare a casa.
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Nel 2010 venne all’Olimpico da nemico, finale di coppa Italia, minacciando e sbraitando che non voleva giocarla la partita per via dell’inno di Venditti sparato a palla prima dell’inizio. Giovedì sera ha preteso che lo stesso inno fosse sparato a palla e cantato dalla gente alla presenza dei giocatori. Pragmatico e lirico. Feroce e sentimentale. Nessun allenatore prima di lui, romano, italiano, straniero, aveva toccato questa corda semplice e irresistibile che sta alla base della storia arcaica del calcio. La fusione tra quanto sta sopra adorante e quanto sta sotto adorata.
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Nel momento in cui il feroce e lirico Josè pretende questo, l’inno cantato che pervade timpani e sensi, è anche un gigantesco vaffanculo al calcio degli agenti parassitari e dei calciatori mercenari, senza un’anima che non sia un pezzo di stoffa cangiante. Lui, Josè, mercenario con un’anima forte, che diventa tutto là dove sta. Mai stato così tutto, dopo nemmeno due mesi, come oggi a Roma, forse nemmeno ai tempi del Porto. L’ha pensata e l’ha tradotta subito in un fatto questa cosa dell’inno cantato. Siamo o poco ci manca all’energia tribale della danza Maori che fa vibrare i tuoi e fa tremare terre, stadi e nemici.
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Due mesi nemmeno e l’impronta di Josè è più riconoscibile di quella di un Gigantosauro. Di nuovo, il pragmatismo insieme lirico e feroce. Mourinho è tra i pochissimi che se lo possono permettere (Guardiola, Bielsa, Klopp, forse Conte, Gasperini in Italia, ma solo nell’Atalanta): dichiarare senza perifrasi i suoi favoriti a corte. Lui non conosce la logica dei contentini. Dice questi sono i miei 12, 13, forse 14 titolari. Gli altri sono fuori, ma non sono esclusi. Possono rientrare in qualunque momento purché dimostrino di non soffrire l’esclusione, di non avere un ego fragile disposto a lasciarsi ferire.
Viste così, le scelte di Mourinho sono un test più per gli esclusi che per gli inclusi. La legge di Josè è quella dell’amore tiranno, ma non reggerebbe una settimana se non ci fosse dietro sapere e carisma. Zaniolo che torna alla vita e dice: “Basta girarsi, guardare la panchina, vedere lui e ci sentiamo tutti più forti”. Mourinho che dice: “Loro crescono e io cresco insieme a loro”. Si chiama doping di parola. E Josè in questo è infallibile. Non ne sbaglia una.
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