1 - GERUSALEMME TORNA IL TERRORE
Fabiana Magrì per “la Stampa”
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A quell'ora sono ancora stropicciati e assonnati mentre salgono sugli autobus che li portano da casa a scuola. Uno choc, quello provocato dai due attentati gemelli alle fermate di autobus a Gerusalemme, nei pressi della stazione centrale e all'ingresso stradale nord di Ramot, tra le 7 e le 7.30 di ieri mattina, che resterà indelebile nella memoria di decine e decine di bambini.
Aryeh Schupak, 16 anni, origini canadesi e studente di un collegio rabbinico, ha perso la vita in ospedale per le ferite riportate nella prima esplosione, ed è stato seppellito poche ore dopo la sua morte. Feriti e traumatizzati a decine altri ragazzini, vittime e testimoni degli attacchi.
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L'incubo delle bombe nascoste nelle borse abbandonate sui mezzi pubblici, alle fermate e nelle stazioni torna a minacciare Israele. Zaini riempiti con chiodi, viti e biglie per causare più vittime possibili. Ordigni attivati da remoto, con telefoni cellulari. Una dinamica a cui non si assisteva da tempo, dalla Seconda Intifada, nei primi anni Duemila.
Negli ultimi 17 anni episodi del genere sono stati sporadici. Nel 2011 un ordigno nascosto in uno zaino esplose a una fermata dell'autobus nei pressi del Centro Congressi di Gerusalemme. Due morti e dozzine i feriti. Nel 2012 un attacco terroristico a Tel Aviv, a bordo di un autobus affollato, fu compiuto con una bomba nascosta in anticipo sul mezzo e fatta esplodere a distanza: 28 i feriti. Era l'ottavo e ultimo giorno dell'operazione Pillar of Defense, poche ore prima del cessate il fuoco. Nel 2016 l'esplosione di un autobus a Gerusalemme, 21 persone ferite, fu attribuito ad Hamas.
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Se li ricorda bene, quegli episodi, Motti Gabay, oggi come allora autista di autobus. Ieri era al volante del n. 67 in transito vicino a uno dei due punti fatali nel momento dell'esplosione. Al sito di notizie israeliano Ynet ha raccontato di aver subito capito che si trattava di un attacco terroristico. E di non esserne rimasto sorpreso.
Non c'era stato un avvertimento specifico per la giornata di ieri, ha spiegato ai reporter sul posto un vice commissario di polizia, ma informazioni dell'intelligence avevano invitato all'allerta per possibili attacchi in generale.
Il doppio attentato di mercoledì è la coda di una scia di un recente aumento di violenza e terrore, in corso da otto mesi, che l'esercito israeliano è impegnato a sedare con azioni antiterrorismo quasi quotidiane in tutta la Cisgiordania. Tuttavia ieri è stato diverso.
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L'azione non è stata condotta da un improvvisato lupo solitario, come altri attacchi recenti dalla dinamica casuale, quasi passionale. Dietro all'attacco terroristico, congiunto e coordinato, si intuiscono - come evidenzia in un'analisi il Jerusalem Post - un'infrastruttura, un certo grado di esperienza, una pianificazione e una regia.
Paradossalmente proprio questa fattispecie favorisce le indagini dell'intelligence e consente al premier Yair Lapid di dichiarare con sicurezza: «Troveremo i terroristi. Possono fuggire, possono nascondersi, ma questo non li aiuterà». Dal salto di qualità e dai dettagli dell'operazione, gli analisti sembrano escludere la responsabilità di neonati gruppi armati di giovani radicali, laici e indipendenti, come la Fossa dei Leoni di Nablus.
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Piuttosto, si immagina qualcuno di ben addestrato, con una conoscenza capillare dei luoghi, una copertura logistica ed economica e in condizioni di muoversi liberamente in città. Il padre di una delle vittime ferite nell'attacco ha riferito il racconto di suo figlio, che ha notato un uomo fotografare le persone in attesa alla fermata dell'autobus poco prima dell'esplosione.
Per tutta la giornata di ieri si è attesa una rivendicazione che non è arrivata. L'approvazione però sì, immediata, di Jihad islamica e Hamas. Il livello di allerta resta alto in tutto Israele, mentre la polizia è impegnata in una caccia serrata agli attentatori. «Finora nessun arresto, ma numerosi controlli» ha riferito un ufficiale di polizia di Gerusalemme.
2 - MESSAGGIO DI SANGUE DIRETTO A NETANYAHU
Stefano Stefanini per “la Stampa”
Gli attacchi di ieri contro due fermate di autobus a Gerusalemme, anche senza paternità rivendicate, accendono due spie: esistenza, o ripresa, di focolai terroristici all'interno di Israele; conseguente venir meno del clima di assoluta normalità nelle strade e nelle piazze.
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Da circa sette anni, Israele non conosceva attacchi-bomba contro civili. Il campanello di allarme si aggiunge alle crescenti tensioni e violenze fra palestinesi e israeliani degli ultimi mesi. Il nuovo governo in via di formazione si trova adesso alle prese con un rischio sicurezza interno. Israele ha superato ben altro. Il problema di Gerusalemme non sarà la tenuta contro il riaffacciarsi del terrorismo. Sarà che conclusioni ne vorrà trarre.
Chi ha perpetrato gli attentati può o meno aver voluto lanciare un tragico avviso a Benjamin Netanyahu. Chi ha perpetrato gli attentati può o meno aver voluto lanciare un tragico avviso a Benjamin Netanyahu che si appresta a riassumere il ruolo "naturale" di Primo Ministro - lo è stato per 12 degli ultimi 13 anni.
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Si può però dubitare che il prossimo premier e i suoi futuri alleati ne traggano stimolo a prendere per le corna la questione palestinese. Gli attentati incoraggeranno una linea dura che va benissimo contro il terrorismo, ma il cui risvolto politico è di lasciare definitivamente senza Stato i palestinesi. Eliminare le zanzare terroriste è necessario ma non sufficiente, se non si bonifica la palude.
La palude dove ronzano poche zanzare omicide sono i milioni di palestinesi della Cisgiordania, di Gerusalemme e di Gaza - tre situazioni diverse con in comune la mancanza di una prospettiva statuale. Il relativo benessere di chi vive a Ramallah e Gerusalemme fa solo da parziale compensazione. A Gaza manca anche quello.
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La gente - dovunque - vuole una bandiera, un passaporto e un governo proprio (per poi criticarlo). Israele ha due vie per accontentarli: uno Stato palestinese o la cittadinanza israeliana in uno Stato unico. L'una si è arenata dopo tre decenni di trattative; l'altra pone una sfida irrisolvibile alla natura "ebraica" di Israele che ha una popolazione di quasi nove milioni di cittadini, compreso il 21% di arabi israeliani cittadini a tutti gli effetti ad eccezione del servizio militare. I palestinesi sono circa cinque milioni e mezzo.
Anche escludendo i due di Gaza - ma cosa farne? - se diventano israeliani la natura ebraica dello Stato passa in cavalleria. Salvo la soluzione apartheid - unico Stato ma senza diritti ai palestinesi. Farebbe venir meno l'altro requisito costituzionale, la democrazia.
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Sotto il lungo premierato di Netanyahu (2009-2021) Israele ha maturato la convinzione di poter vivere e prosperare con lo status quo: semi-autonomia della parte della Cisgiordania amministrata dall'Autorità Palestinese e nell'isolamento di Gaza dove Hamas ha assunto di buon grado il ruolo di carceriere della popolazione.
Netanyahu ha preteso di negoziare la soluzione dei due Stati continuando ad espandere gli insediamenti e, incoraggiato da Donald Trump, accarezzando la soluzione Stato unico, via annessione. Si è fermato per le controindicazioni che comporrebbe il controllo dell'intera Cisgiordania sul piano della sicurezza e della demografia. Status quo significa lasciare irrisolto di nodo della statualità palestinese.
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Tre circostanze hanno giocato a favore: una interna, una bilaterale (israelo-palestinese), una internazionale. La prima è la sicurezza da attentati terroristici, principalmente grazie alla separazione fisica con la Cisgiordania; il "muro" orrendo a vedersi - la maggior parte del tracciato è in realtà uno sbarramento di non troppa visibilità - è servito allo scopo. Con i risultati non si discute troppo.
Gli attacchi di ieri incrinano questa fiducia ma possono essere l'eccezione che conferma la regola. In secondo luogo, Israele ha trovato un modus vivendi con l'Autorità Palestinese che chiede i due Stati ma offre una collaborazione indispensabile nella sicurezza. Gli israeliani si tengono stretto Abu Mazen al potere a Ramallah. Finche' dura. Le elezioni sono un optional.
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La terza è l'accettazione di Israele da parte degli Stati arabi sunniti in base al principio che il nemico (Israele) del mio nemico (Iran) è mio amico. Questa intesa fa di Israele un alleato del Golfo. È stata formalmente sugellata dagli Accordi di Abramo con gli Emirati. L'Arabia Saudita tiene le carte più coperte, ma anche per Mohammed bin Salman la contesa geopolitica regionale con Teheran conta più della questione palestinese.
Lo status quo ha confermato l'adagio che nulla è più duraturo del transitorio. Le bombe di ieri, pur coordinate, portano i segni di una manifattura artigianale. È troppo presto per parlare di ritorno su larga scala del terrorismo in Israele, specie se Hamas e Jihad islamica tacciono.
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La società israeliana è abituata come nessun'altra al pericolo permanente. Quando suona l'allarme, tutti sanno di avere dai 20' ai 2' di tempo, a seconda di dove vivono, per mettersi al riparo dai razzi di Gaza. L'interrogativo non è la resilienza della popolazione; è la politica del nuovo governo.
Netanyahu avrà alleati apertamente anti-arabi con precedenti ai limiti dell'incitamento al razzismo. La prevedibile strategia sarà di ampliare gli insediamenti in Cisgiordania e di annettere di fatto se non di diritto "Giudea e Samaria". Malgrado i campanelli d'allarme la questione palestinese finirà sempre più sotto il tappeto. Per poi rispuntare.
BENJAMIN NETANYAHU