DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Andrea Nicastro per il “Corriere della Sera”
Maestro, che cos' è l' arte per lei? Gli occhi velati dalla cataratta divagano annoiati, ma William Klein risponde a rasoiate. «Non lo so, devo ancora leggere il Corriere della Sera». Il vecchio ribelle è tornato a Milano.
Nel '68 era già troppo avanti per credere al mondo nuovo e si limitò a fotografare, dirigere, dipingere. I suoi vaffa («fuck») li aveva già detti tutti: a New York («le mie foto della Mela bacata erano troppo anti americane per essere pubblicate»), al Dio denaro («money, money, money»), alla moda («un fuck mondo che non ho mai sopportato»),
al sogno americano («macché Manhattan, si vive meglio in Europa»). Dicono che sia il padre della street photografy, la fotografia di strada, ma Klein si schernisce, «L’avevano già fatta in tanti».
Vero, ma mai come Klein, con la sua voglia di rompere le regole, il politically correct, si direbbe oggi.
«Fu Picasso a dirmi, "sai dipingere", ma a me piaceva il cinema e così, per avvicinarmi, cominciai a fotografare. Facevo scatti che gli altri avrebbero buttato. Mi prendevano per matto e forse lo ero, solo che adesso sono tutti matti e in un femminile qualunque vedi le modelle in mezzo alla strada, le stampe sgranate, i fuochi fuori posto, come facevo io. Non so se è vero, ma un editore mi disse che Henri Cartier-Bresson lo minacciò di togliergli il lavoro se avesse pubblicato le mie immagini».
Ma come? Non fu Cartier-Bresson a darle la prima macchina?
«Una stupidata. Io avevo già una macchinetta, ma ne volevo una 35mm. Andai al negozio dove sviluppavo i rullini e ne chiesi una. Il tipo che era lì, andò nel retro e mi vendette la sua. Era Cartier-Bresson, ma non lo sapevo. Ridicolo vendere una macchina, proprio lui, poi, che era ricco e famoso. Che bisogno aveva?».
Non le è bastato diventare l’anti Cartier-Bresson, lo critica anche sui soldi?
«Io conoscevo quello che facevano gli altri, guardavo, assorbivo e ogni volta che provavo per mio conto tentavo l' opposto di quel che avevo visto».
Forse per questo che è diventato amico di Mohammed Ali. Eravate due ribelli.
«Mi stupiva quel nero grande e grosso che urlava "Sono il migliore". E i bianchi americani che lo odiavano perché aveva alzato la testa. Dicevano che combinava gli incontri, insomma nessuno sapeva se era anche solo mediocre, ma io avevo visto in lui l' originalità. Pochi giorni fa c' è stato il suo funerale in tv. Tutti quei neri come armadi che posavano sull' auto, mazzi di fiori. Delicatamente. In suo onore. Bellissimo. Adesso chiunque scrive "è stato il migliore", ma mezzo secolo fa solo io girai "Cassius le grand"», Cassius Clay il grande.
Peccato che quando cambiò il film in «Ali, the Greatest», Ali, il più grande, non riuscì a girare la scena con il campione intervistato da Marlon Brando. I ribelli sarebbero diventati tre.
«Sarebbe stato bello, vero? Brando, l' attore-pugile di "Fronte del Porto", che dialoga con il pugile-attore del Campionato del mondo. Non si fece perché Brando era prigioniero di Hollywood. Lui, Marlon, mi aveva detto sì».
In Italia invece…
«Qui dopo la Seconda guerra mondiale era diverso. Incontrai Giorgio Strehler a casa Bignardi, proprio a Milano, dove avevo dipinto un divisorio girevole inventato dall' architetto Angelo Mangiarotti. Un giovane sconosciuto, allora. Così Strehler mi offrì di esporre nei corridoi del Piccolo Teatro. Lì vide le opere Gino Ghiringhelli della galleria il Milione dove si vendevano Modigliani, Kandinsky e Fontana e mi fece esporre da lui. L' arte si incontrava davvero per strada».
Klein si illumina quando parla delle tante amicizie. Di Federico Fellini («un mito, peccato fosse un fuck confusionario senza soldi, mi voleva come assistente e quel che mi resta di quei mesi è un libro, non un film»), Pier Paolo Pasolini («innamorato del cinema, come me»), Sofia Loren («che era su tutti i muri di Roma»), Laura Antonelli («in quel periodo il cinema italiano faceva delle italiane le donne più belle del mondo»), Alberto Sordi («ero un suo fan»).
«Fernand Léger mi accolse nel suo studio parigino subito dopo la Guerra. Volevo fare arte. Allora quelli veramente importanti erano Picasso, Matisse, Paul Klee, non Léger, ma a me andava bene perché era sperimentatore, multimediale.
Mi spingeva a lavorare con gli architetti, come i pittori del '400, ad andare in strada, a provare cose diverse che non dovevano piacere ai critici. Poco tempo fa ho visto la pubblicità che diceva: se avete tele di questi autori ve li paghiamo un milione di dollari. Al posto 25 c' era Léger. Finalmente l' hanno capito. Per me bisogna aspettare ancora un poco, ma succederà anche alle mie foto».
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