DAGOREPORT - BENVENUTI AL GRANDE RITORNO DELLA SINISTRA DI TAFAZZI! NON CI VOLEVA L’ACUME DI…
Intervista di Francesco Bonami per GQ www.gqitalia.it
L’inizio dell’avventura americana di Mario Sorrenti potrebbe essere un film di Scorsese, o magari meglio di Tornatore. Sono i primi Anni 80, l’alba di una delle tante rinascite della Grande Mela. Quando Sorrenti arriva da Napoli a soli dieci anni, con la madre e il fratello Davide, Manhattan è già nelle mani degli italiani: sono gli artisti della Transavanguardia, fra i quali il più carismatico di tutti, Francesco Clemente, è napoletano pure lui.
L’energia che circola in città è contagiosa. Sorrenti la racconta con un accento partenopeo che, quando si mescola all’inglese, diventa una lingua con un suono tutto suo.
Arrivo a New York e mi eccito subito. Nulla sembra difficile, e attorno a me c’è tutta questa energia senza puzza sotto il naso, dai graffiti alla break dance, agli skateboard e a tutto il resto. Una volta che inizio a masticare l’inglese, la città m’inghiottisce; divento suo.
La fotografia non è stato il tuo primo pensiero.
Mio padre era un artista, quindi le prime cose che ho provato sono state la scultura e la pittura, ma non funzionava. Per fortuna incontro due ragazze che fanno le fotografe e mi convertono. Non devo più stare a dipingere per settimane: in due giorni vedo il risultato delle mie idee.
Qual è la foto che ti ha fatto capire che eri sulla strada giusta, che quello sarebbe stato il tuo futuro?
Non saprei dire. Però quando ho iniziato a fare moda scattai anche una foto a mio fratello Davide, e quando la vidi mi commosse molto (il fratello di Sorrenti, anch’egli fotografo, è morto a New York nel 1997: aveva vent’anni ndr.). Quell’immagine mi faceva entrare e uscire dalla mia famiglia allo stesso tempo. Proprio il rapporto con la mia famiglia, e con le immagini che scattavo loro, è sempre stato un po’ il punto di riferimento del mio lavoro: cerco qualcosa di familiare nella gente che incontro, e che poi finisco per fotografare.
Oggi usi molto Instagram.
Sì, ci metto immagini così, senza pensarci su molto. Ma poi quando le riguardo trovo sempre una relazione fra di loro, sembrano guardarsi costruendo una storia.
Quanto ti piace parlare del passato?
In generale non parlo molto.
Ma, per esempio, come è nato The Machine, il libro su tuo fratello?
Stavo facendo un altro lavoro quando mi distraggo e inizio a rovistare fra le mie immagini e scopro tutto questo materiale su mio fratello, che avevo fatto qualche anno prima che lui morisse. Allora lascio a metà l’altro libro e mi metto a lavorare a The Machine, che però secondo il mio editore è troppo personale, così non lo pubblica.
Ma poi arriva il mio amico Paolo Roversi e vede tutto il materiale e decide di pubblicarlo. (Il libro è la toccante testimonianza fotografica di una notte di sofferenza del giovane Davide Sorrenti, collegato a una macchina per la somministrazione di farmaci, appunto The Machine, ndr.).
Solita, noiosa domanda: dove tracci un confine fra il tuo lavoro commerciale e quello artistico?
Ma non c’è un confine! Tento sempre di fare qualcosa che non puoi inchiodare in un genere: moda, arte, pubblicità… Spesso, quando la gente vede le mie immagini, dice: questa non è una foto di moda. Ma non si possono prendere Avedon e Newton come punti di riferimento per il resto della nostra vita, rispondo io. Vedi, ci sono foto costruite che diventano realtà, e foto della realtà che sembrano artificiali. Io mescolo un po’ tutto e a volte quello che alla gente sembra fare più schifo è quello che a me piace di più.
Sei uno dei fotografi che sanno trattare il corpo, nudo, in un modo molto particolare. Ogni tanto sfiori la pornografia, quasi come una sfida.
Sono nato guardando il corpo umano nudo. Mio padre mi portava nei musei e io osservavo le sculture e la loro anatomia in tutta naturalezza, un atteggiamento che ho mantenuto nelle mie foto. A un certo punto sono stato anche molto interessato alla pornografia, prima che fosse accessibile su Internet perdendo tutta la sua eccezionalità.
A volte vedevo del materiale pornografico eccezionale e scoprivo anche delle cose assolutamente tabù. Oggi non c’è più niente di tabù. Tutto è a portata di mano.
La pornografia è diventata il nostro modo di vivere, anche quando ci vestiamo a volte lo facciamo in modo pornografico, sottolineando il nostro corpo più che la nostra natura.
Tabù ne cerchi ancora?
Sono in un periodo della vita meno torturato, e più che i tabù cerco dei contatti profondi. Mi viene in mente mio padre, che quando vedeva il mio lavoro mi diceva: “Mario, ma perché devi fare tutte queste cose travagliate e buie? Non ti devi vergognare di essere felice, la felicità è bella”. Forse sto arrivando a dargli ragione.
Quali sono le persone che hanno contribuito veramente a farti diventare quello che sei?
Forse non sono stati singoli individui, ma un gruppo di persone con le quali ho condiviso un periodo della mia vita molto intenso, quando ero a Londra. C’era Mark Lebon, e poi chiaramente Kate Moss.
Fondamentale è stata la mia prima agente Kim Sion, che ha creduto subito in quello che facevo e mi ha insegnato il potere della fotografia. Poi Fabien Baron, e di certo Calvin Klein che mi fece fare la campagna per Obsession quando ero giovanissimo. È stata quella a cambiarmi la vita.
La relazione con Kate Moss com’è stata?
Come vuoi che sia stata, eravamo come due bambini, lei aveva 16 anni e io 18. Viveva da sua madre, dove a un certo punto sono andato a stare anch’io. Non pensavamo a quello che sarebbe diventata la nostra vita, i nostri sogni.
Ricordo ancora che quando Kate firmò il primo contratto con Calvin Klein, prima di lavorare con me, il nostro gruppetto di amici lo vedeva come una cosa molto figa, ma senza nessuna idea di quello che avrebbe potuto dire per la vita di Kate, o per le nostre.
Eravamo un piccolo gruppo, con David Sims che viveva seduto sul marciapiede davanti a casa mia. Poi il mondo ci è cambiato fra le mani e ci siamo dispersi e persi di vista, rimanendo però molto amici.
Perché lasciasti Londra?
Andavo a New York sempre più spesso e alla fine ci sono rimasto. Oggi ho voglia di tornare in Europa, il ritmo della vita mi sembra un po’ meno esagitato che a New York, dove ogni cosa, ogni lavoro sembra essere la fine del mondo.
Quali immagini hanno influenzato la tua carriera?
Tantissime, ma forse quelle che mi sono rimaste più in testa sono di artisti come Man Ray
o Marcel Duchamp.
Cos’è più difficile, fare una campagna pubblicitaria rivoluzionaria o un’opera d’arte rivoluzionaria?
Come si fa a dirlo? Sono cose strane quando succedono, è come prevedere un miracolo. Certo che nel mondo di oggi, così saturato di tutto, qualcosa dovrà accadere. Un miracolo che cambi la nostra percezione del mondo. Mia nonna mi diceva sempre che i miracoli ci sono, eccome.
E mio padre mi raccontava una cosa pazzesca. Durante il terremoto, diceva, una scultura era caduta dalla cima di una chiesa ed era atterrata in piedi, senza rompersi. Io gli chiedevo com’era possibile e lui mi rispondeva: un miracolo, e io non potevo fare altro che dargli ragione.
Ma a te, miracoli ne sono mai capitati?
Boh… Quella foto di Kate sul divano, che a me sembrava così normale e che invece è diventata un’icona: non so spiegarmelo, a meno che non dica come mio padre che è un miracolo! E mi va bene che ci sia la possibilità, nella vita, di questo tipo di magia.
C’è qualche modella che ti piace fotografare in particolare?
Recentemente non ho trovato nessuna che sia capace di essere così libero da lasciare che io possa guardarle veramente dentro.
In passato chi aveva queste caratteristiche?
Una volta venne questa ragazza a portare in studio del cibo a domicilio, che poi è diventata un’artista, una performer: si chiama Shannon Plumb. Aveva sempre qualcosa di nuovo da farmi scoprire di lei, l’ho fotografata per cinque anni. Ma oggi la gente è molto più in guardia, difficilmente si lascia andare.
Che tipo di donna funziona oggi nel mondo della moda?
Ho la sensazione che si stia tornando, dopo un periodo molto meccanico in cui andavano bene le persone-robot, a una donna più sensuale e sexy, non tanto bella ma con un carattere, come succedeva negli Anni 90.
Un personaggio che ti ha davvero impressionato quando l’hai fotografato?
Julianne Moore: mentre la inquadravo era come se stessi fotografando un sogno molto strano. Un’altra persona che fotografai per Interview e che mi ha colpito molto fu il regista Jean-Luc Godard. Avevo solo dieci minuti per fargli il ritratto nella sua stanza d’albergo, ma quei dieci minuti furono davvero intensi: aveva un carisma che riempiva lo spazio, e ogni foto che scattavo era come se gli sparassi un colpo di pistola.
Chi sei, al di là del “brand Sorrenti”?
pirelli 2012 cover 2 mario sorrenti
Ci stavo pensando proprio ieri. Allora ho postato su Instagram due autoritratti. Uno di me vestito, con sotto scritto Mario Sorrenti, e l’altro di me nudo, con sotto scritto “Io”.
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