Paolo Mastrolilli per "La Stampa"
JONATHAN FRANZEN«Se Karl Kraus fosse ancora vivo, userebbe il Pc e non il Mac». Sembra solo una battuta snob, questa di Jonathan Franzen, ma dietro c'è un sistema di pensiero che porta a una serie di conclusioni logiche: il computer è solo una macchina, se ne esce fuori qualcosa di bello il merito è dell'autore; perdere tempo con i social media è frivolo, proprio perché soffoca e distrae dall'obiettivo davvero importante della comunicazione; i contenuti valgono, e quindi bisogna farli pagare; i giornali che forniscono questi contenuti sono essenziali per il corretto funzionamento delle democrazie, e quindi è necessario salvarli.
jonathan franzen david foster wallace«Le dotte conversazioni sui nuovi modelli di business sono inutili: Kraus era un blogger ante litteram, perché aveva i soldi di famiglia e si poteva permettere un giornale personale. Oggi non esiste un modello che possa funzionare davvero sul piano commerciale, e forse non è mai esistito. In un modo o nell'altro, i giornali sono sempre sopravvissuti grazie ai sussidi, ed è giusto così, perché svolgono una funzione insostituibile. L'unica cosa su cui ci dovremmo concentrare è trovare un nuovo modello di sussidio, che garantisca la sopravvivenza di questi media, anche se sul piano economico generano perdite».
Jonathan FranzenFranzen tiene molto a questo dibattito, per lui è quasi un'ossessione. L'autore delle «Correzioni» è il prototipo del cittadino informato, con una venerazione per il giornalismo professionistico, che tratta grosso modo come la chirurgia cardiovascolare. Perciò ha appena pubblicato un libro intitolato «The Kraus Project», una collezione di traduzioni dell'autore austriaco, commentate da lui. Di questo parla con Henry Finder e Clay Shirky durante un dibattito al New Yorker Festival, intitolato «Is Technology Good for Culture?».
JONATHAN FRANZEN E DAVID FOSTER WALLACEChe c'entra Kraus, con la disputa fra i computer ispirati da Bill Gates e Steve Jobs?
«A suo tempo, discutendo del giornalismo moderno che si diffondeva, ma perdeva le caratteristiche buone del giornalismo senza guadagnare quelle migliori della letteratura, Kraus scelse di schierarsi col funzionalismo tedesco, piuttosto che con l'estetismo francese. Ecco, secondo lui una macchina doveva essere funzionale, non bella. A creare il bello ci pensava lui, e in questo processo la macchina doveva solo sparire».
E invece il Mac cosa fa?
«Questa ossessione per il design, essere cool... Io ho passato tutta la vita a cercare di essere radicalmente non cool. Non è che siccome tutti fanno queste cose, è giusto farle. Magari alla fine sarà proprio il ragazzo solo, quello seduto nel tavolo d'angolo della mensa scolastica, che diventerà così alienato da scrivere un libro o dipingere un quadro interessante».
Odia la tecnologia moderna?
«No, la uso tutti i giorni. Però non credo che di per sé generi necessariamente un mondo migliore».
Non le piace la creatività che consente a tutti?
«Anche leggere un libro è un atto creativo, che stimola l'immaginazione. Se il libro è buono, è meglio che dedicare il tempo a produrre un tweet».
Ce l'ha con i social media?
«Penso che Twitter sia stupido e crei dipendenza. Ci sono alcune eccezioni, come ad esempio Salman Rushdie, che lo usa per promuovere scrittori che altrimenti nessuno noterebbe, ma sono rare. Un romanzo nasce dall'assorbimento nel soggetto di cui si tratta, mentre i social media sono fatti per distrarre.
E poi tutta questa abbondanza... Secondo me scrivere significa fare ordine, cioé ridurre. Con le nuove tecnologie, ogni volta che pensi di aver fatto un po' di ordine, la quantità delle informazioni raddoppia e tutto esplode».
COMPLEANNO TWITTERPer uno scrittore non è utile il feedback immediato dei social media?
«Non credo che avrebbe funzionato, per William Faulkner. Io stesso sarei terrorizzato, se cominciassi a scrivere oggi. I giovani autori con cui parlo sono soffocati: quando hanno un'idea, invece di sentirla, gli editori chiedono quanti seguaci hanno sui social media. Questa necessità della continua autopromozione è assillante. Quando scrivo non voglio feedback: sto facendo qualcosa, e preferisco occuparmi di questo».
I tweet, quei versi di 140 caratteri, non possono essere arte?
«Ah, certo: anche con gli stuzzicadenti si può fare arte».
Vorrebbe vietare i social media?
«No. Da buon liberal, preferisco che la gente faccia quello che crede. Però mi piacerebbe cominciare ad avere una conversazione da adulti, e ci chiedessimo: davvero vogliamo tutto questo? La fine del giornalismo professionistico, la sopravvivenza di un solo editore di libri negli Usa, il multitasking? Non sarebbe il caso di fermare l'orologio?».
Perché vuole salvare il giornalismo professionistico?
«Il soggetto con lo smartphone cattura la notizia, ma poi si tratta sempre di piccoli segmenti molto simili. Il blogger, come Kraus, si perde spesso in un mondo autoreferenziale. Il leaker dà i documenti, ma poi chi è che li legge, capisce gli aspetti importanti, e li mette nel contesto? Non vi pare utile avere uno che ha studiato questi temi per 20 anni, e ci aiuta a capire?».
Ma se i giornali non sono in grado di sostenersi?
«E' sempre stato così. Ora di nuovo c'è che la pubblicità ha trovato altri canali. Bisogna cercare un altro modello per dare sussidi ai giornali, farli sopravvivere, pagare i contenuti e chi li produce».
Ma chi scrive non dovrebbe farlo solo per il piacere di pubblicare?
«Questa è la ragione per cui penso che internet sia donna. Anche alle madri, quando ero bambino, si usava dire: stai a casa, ok? Non vieni pagata? E' vero, ma crescere la tua famiglia non è ciò che ami? E scrivere un articolo non è quello che ami? Allora dovresti essere felice per il semplice fatto di pubblicarlo. No, non è così. Le madri a casa facevano un lavoro duro e indispensabile, che meritava di essere riconosciuto. Lo stesso vale per giornali e giornalisti».