Stefano Cappellini per La Repubblica-Estratti
elena basile otto e mezzo
Gli italiani non sanno più chi fosse Liala, non sanno ancora chi è Elena Ferrante, ma sanno ormai quasi tutti - quelli che devono - chi era Ipazia. Dietro lo pseudonimo che tra il 2022 e il 2023 ha firmato sul Fatto quotidiano numerosi articoli sulla guerra in Ucraina – sintetizzabili in questi due passaggi autografi: “Chi ha stabilito l’assioma per cui l’Ucraina è uno Stato democratico che combatte contro una dittatura?”, e ancora: “Zelensky manda 250 mila ucraini a morire per volontà della Nato” – c’era lei: Elena Basile.
Napoletana, classe 1959, capello argenteo e impeccabile birignao controsoprano, Basile è in grande ascesa televisiva nei talk che discutono sui massacri di Hamas. Lilli Gruber, che l’ha ospitata due volte su tre negli ultimi giorni a Otto e mezzo, facendo di lei la “nuova Orsini” nella vulgata mediatica, la chiama con reverenza “ambasciatrice” (lei ricambia con “dottoressa”, come Orsini con Berlinguer).
elena basile
Basile ha effettivamente svolto la funzione in anni recenti, in Belgio e Svezia, anche se senza raggiungere mai il grado ufficiale di ambasciatrice. Tanto che ieri prima l’ex direttore generale del ministero, Ettore Sequi, quindi il Sindacato dei diplomatici italiani sono intervenuti per contestare la qualifica: “Non si tratta di una mera distinzione formale - spiega la nota del sindacato Sndmae - ma di una corretta informazione del pubblico, dal momento in cui l'appellativo di ambasciatore/ambasciatrice incide direttamente sulla percezione dell'autorevolezza dell'interlocutrice”. Autorevolezza che, secondo gli ex colleghi di Basile, in pensione dal 2022, è bene non accordare a chi esprime posizioni “che gettano un’ombra sulla fedeltà ai valori repubblicani dei membri della carriera”. Probabile che Basile farà di questo attacco una medaglia.
Chi la conosce bene spiega che il suo cruccio è non essersi sentita abbastanza valorizzata alla Farnesina.
ELENA BASILE
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Basile sui social si definisce comunque in primo luogo “writer of fiction”, scrittrice, ha pubblicato dei romanzi, come già appunto le colleghe su citate cui la accomunava l’uso del nom de plume.
Nei talk su Gaza Basile è in quota filo Hamas. Non in senso letterale, ovviamente. Il gioco dei ruoli prevede gli stessi passaggi formali già sperimentati sulla guerra in Ucraina: “Premesso che la Russia è il Paese invasore…”, segue lungo elenco di argomentazioni da cui lo spettatore evince che l’invasione è il minimo, dato il fracco di torti che la Russia avrebbe subito da ucraini, americani e occidentali in genere.
In questo caso la premessa prevede una rapida condanna della “barbarie di Hamas” (parole di Basile) prima di passare alle responsabilità del vero carnefice: Israele (“Dobbiamo salvare questa gioventù ebraica sterminata dalle politiche di Israele basate sulla forza”, ha detto sempre da Lilli). Come espediente retorico è una via di mezzo tra la taqiyya islamista – la pratica di dissimulare le proprie vere idee pur di mettere nel sacco il nemico - e gli incipit a mani avanti degli omofobi decisi a non passare per tali: “Ho molti amici gay…”.
ELENA BASILE
L’altra sera, da Lilli, Basile ha provocato la furente reazione di uno dei giornalisti più misurati e attenti alle parole, Aldo Cazzullo, quando in un momento più nature, diciamo così, le è scappato di dire: “Peccato che tra gli ostaggi a Gaza ci siano pochi americani, avrebbe aiutato”.
La comprensibile reazione di Cazzullo (“Si vergogni”) ha provocato una maldestra ritirata della “ambasciatrice”: “Ma perché, che differenza fa se gli ostaggi sono francesi e americani?”, cioè il concetto esattamente contrario di quanto aveva appena sostenuto. Non male per una che in uno dei suoi ultimi articoli ha iniziato il ragionamento lamentando il decadimento dei principi logici aristotelici, quelli altrui.
Nella precedente performance a Otto e mezzo, a Beppe Severgnini che la invitava a partire dal principio della indifendibilità dei massacri di Hamas, aveva replicato subito, secca: “Indifendibile è la hubris dell’Occidente”, con termine greco a indicare la tracotanza yankee, nonché a ulteriore dimostrazione che lo pseudonimo Ipazia non era solo un vezzo onomastico.
elena basile
Nell’arsenale dialettico che, un tempo catodico fa, si sarebbe detto orsiniano e oggi basiliano, i contraddittori delle sue tesi si dividono in tre categorie: uno, i servi dell’imperialismo; due, gli ignoranti in materia; tre, i bellicisti. Non sappiamo in quale delle tre sia finito Paolo Mieli, dopo aver replicato a Basile che non capiva cosa lei intendesse invocando per Gaza la “de-escalation” – termine molto caro anche a Giuseppe Conte che lo usa ogni qual volta gli viene chiesta una ricetta su un conflitto geopolitico. Basile ha tenuto il punto: “Questa è sottocultura, sono delusa, dottor Mieli, seguo sempre i suoi spettacoli”.
Ma ieri, sul suo profilo X, Basile ha tenuto a spiegare che “diversamente da altri giornalisti, Mieli è una persona colta che ha affrontato il confronto con eleganza. Altri si divertono a gettare fango sul dissenso”. Ecco l’ultimo scudo: il vittimismo. Necessario per passare da perseguitati dal sistema, o da vittime dei giornaloni, del mainstream, delle lobby ebraiche. Quest’ultima è testuale, di Basile: “Dobbiamo chiederci se le politiche americane saranno sempre così condizionate dalle lobby ebraiche”. Mieli ha alzato un sopracciglio. Cazzullo ha sibilato: “La lobby demo-pluto-massonica”.
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