Quirino Conti per Dagospia
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C’è stata una stagione, quando ancora le sale cinematografiche non si erano trasformate in lazzaretti, nella quale era brillantissimo mostrarsi appassionati di un certo cinema coreano quasi sempre girato in terribili obitori e la cui sostanza riguardava gli amplessi dei vivi con i defunti, soprattutto se congiunti, consanguinei o addirittura familiari di primo grado.
Indimenticabile l’entusiasmo di una nota gallerista per una storia che vedeva una figlia applicarsi con devozione sul corpo raggelato del padre defunto con ulteriori interventi di fratelli, sorelle e quanti altri frequentassero quel luogo ameno. Va da sé l’entusiasmo della critica meglio pagata, capace di trovare nei sottotitoli una sostanza letteraria di primissimo piano.
Forse per questo, per un revival di quella brillante stagione, il Festival di Venezia con la sua scortesissima presidentessa in mutande Julianne Moore premia ora con un Leone d’argento un regista dedicato all’inizio ai plagi dei grandi del cinema barocco, quindi ad atti di autoerotismo con pesche o chissà quali altri generosi frutti estivi, infine alla più succulenta delle storie erotico-mangerecce: la grandiosa scoperta del cannibalismo più eccitante.
Quirino Conti
Si ricorda sempre con orrore la famosa censura ecclesiastica, che esponeva alla porta delle chiese i giudizi più condizionanti per la cinematografia in corso. Indimenticabile padre Arpa, gesuita coraggioso, che convinse il cardinale Siri ad avallare Federico Fellini con la sua discussissima Dolce vita.
Ci sarà ancora in giro qualcuno che guarderà questo Leone d’argento con serio allarme? Per un pubblico di tatuati questa storia sembra la migliore porta verso un primitivismo persino stilistico: che dunque le pedane delle grandi capitali divengano luoghi privilegiati per banchetti e sottintese crapule corporali. Comunque, qui vale davvero la bella espressione di Giuliano Ferrara: “Non l’ho visto e non mi piace”.
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