Marco Giusti per Dagospia
Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino
ARMIE HAMMER CALL ME BY YOUR NAME
Eccolo, finalmente, il film di Luca Guadagnino che ha un po’ risollevato, in questi ultimi mesi lo stato comatoso di tutto il nostro cinema. Diciamo subito che, al di là, della corsa all’Oscar, ai Golden Globe, agli Spirit Awards, ai Bafta, al di là del successo al Sundance e a festival di Berlino dei primi del 2017, al di là delle dichiarazioni d’amore intellettuali e registi, da Brett Easton Ellis a Paul Thomas Anderson, Chiamami col tuo nome, diretto da Luca Guadagnino, sceneggiato assieme a James Ivory e a Walter Fasano e tratto dal romanzo omnimo di André Aciman, è un bel bagno di classe in un cinema sospeso tra Nouvelle Vague, Bertolucci e Pialat per noi spettatori d’età, e una bella iniziazione all’amore e all’accettazione di se stessi per gli spettatori più giovani.
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Ai quali, forse, è più indirizzato il film, vista l’accoglienza festosa che sta raccogliendo in America e in Inghilterra. Infatti, più che un “gay masterpiece” o un “queer classic”, come è stato più volte definito, tratto inoltre da un libro di culto in America, mi sembra da una parte un dottissimo film-omaggio a tutto il cinema che abbiamo amato ai tempi di Bertolucci, diciamo così, da un’altra, ma è l’aspetto più forte del film o non sarebbe andato così bene, è un gran romanzo d’amore per ragazzini, davvero senza differenza di preferenze sessuali.
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Oltre, ovviamente, a essere anche una sorta di piccolo miracolo di grazia e di intelligenza, sia di scrittura che di messa in scena. E perfettamente in grado di competere ad armi pari con i grandi film della stagione, da La forma dell’acqua a Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Eppure, pur parlato in tre lingue, girato in Lombardia, tra Crema, Sirmione e Clusone, con ambientazione per noi mai viste, pensato per un pubblico, assolutamente internazionale, che non è certo (solo) il nostro, Chiamami col tuo nome è qualcosa che si muove e gira attorno al nostro passato, alla nostra cultura più profonda, anche cinematografica, per poi allontanarsi del tutto dai nostri modelli cinematografici attuali.
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Forte di una fotografia meravigliosa di Sayombhu Mukdeeprom, il direttore della fotografia di Lo zio Boonme di Apichatpong Weerasethakul, e del remake di Suspiria, che Guadagnino ha già praticamente finito, è una sorta di racconto morale rohmeriano, ambientato nell’Italia craxiana del 1983, dove un ragazzino ebreo-americano di 17 anni, Elio Perlman, interpretato da uno strepitoso Timothée Chalamet (Interstellar), scopre il sesso e la propria identità sessuale. Prima perdendo la verginità con la sua amica del cuore Marzia, Esther Garrel, poi innamorandosi, corrisposto, di Oliver, Arnie Hammer (The Lone Ranger, Mine), bel ventiquattrenne americano che lavora col padre studioso di archelogia, Michael Stuhlbargh.
LUCA GUADAGNINO E GLI ATTORI DI CALL ME BY YOUR NAME
Nell’arco di 130 minuti, in una calda estate lombarda di un tempo per noi ormai antico, segnato dalla fine degli anni di piombo e l’esplosione della tv più scatenata, seguiamo la testa e il cuore impazzito di Elio, un ragazzino che combatte con i propri sentimenti contraddittori e le proprie paure, sempre in bicicletta come per correre verso un futuro che non conosce, ma cullato sia dal padre americano, che dalla madre francese, la grande Amira Cesar, mentre dal Lago di Garda vengono fuori, rossellinianamente, statue e memorie del passato. Elio, nella sua estate selvaggia, irrequieto come la Sandrine Bonnaire di A nos amours di Maurice Pialat, scopre contemporaneamente amore e paura, felicità e dolore, aiutato però dall’amorevole abbraccio dei genitori.
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Abbraccio che non riuscirà a farlo soffrire di meno, ma lo aiuterà a crescere. Miracolosamente, Luca Guadagnino riesce qui a combinare tutti gli elementi che ha messo sul piatto, il romanzo di Aciman, un cast poliglotta, le musiche d’epoca e quelle nuove e molto alla moda di Sufjan Stevens, il romanzo di formazione, il 1983 e un perfezionismo estremo nella ricostruzione d’epoca, l’amore per il cinema e il desiderio di far parte comunque di una scuola ormai sepolta sotto il lago come le statue del suo professor Perlman. Anche se tutto questo desiderio di voler riprendere la linea bertolucciana dei primi anni ’80, ci ricorda i tanti tentativi sbagliati di allora, penso ai film di Gianni Amico, Marco Tullio Giordana, in un cinema che sembrava irriso e superato già allora dai film di Nanni Moretti.
CALL ME BY YOUR NAME 17
Per noi, ma forse non solo per noi, non è possibile pensarlo e limitarlo solo come un gay masterpiece, perché sono troppi i riferimenti messi sotto i nostri occhi e le trame che il regista ci propone. Da Gelli-Craxi-Grillo a Pialat. La stessa costruzione narrativa è operistica, come nei migliori film di Bertolucci e perfino l’uso di Battiato nella scena clamorosa della pesca deflorata è ironico. Guadagnino riesce a entrare e uscire come vuole dalla sua storia e dal suo 1983, che ricostruisce alla perfezione, ma anche a farci sentire profondamente perfino la crescita del suo protagonista passando dall’estate all’inverno. Nessuno dei film era così compatto, riuscito e al tempo stesso.
Quello che ci riporta non è solo un lontano passato, anche cinematografico, con tutti i suoi dibattiti critici, è anche l’impossibilità di riviverlo. E l’addio alla giovinezza del protagonista sembra coincidere tristemente con l’addio a quello che è stato il nostro cinema più grande per abbracciarne uno più civile e internazionale. In sala dal 25 gennaio.
il cast del film call me by your name armie hammer luca guadagnino