Marco Giusti per Dagospia
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Preparatevi perché non avete visto nulla di simile. E’ stato il caso dell’anno in America, anche economico, visti i 70 milioni di dollari di incasso in patria, 100 con i mercati esteri, con un budget di soli 25 milioni di dollari. Ma questo non basta a spiegare il successo di critica e di pubblico di un film così bislacco, divertente, scombinato, ma pieno di idee, di trovate come “Everything Everywhere All at Once”, scritto e diretto da Daniels, cioè Dan Kwang e Daniel Scheinert, al loro secondo film, prodotto dai fratelli Russo per la A24, ormai società di punta delle operazioni più strampalate, ma anche più divertenti.
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Come “Donnie Darko” è un film che va soprattutto visto, con tutte le sue stravaganze visive e filosofiche, le sue tante lingue, le sue citazioni e poi digerito. Perché alla fine siamo al centro di un piccolo dramma di una famiglia cinese in America, gli Wang, tenuta assieme da una donna forte, la mamma Evelyn, una incredibile Michelle Yeoh che verrà sicuramente candidata agli Oscar, che deve ricucire una serie di inaspettate crisi.
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Col marito, il mollissimo Waymond, cioè Key Huy Quan, il ragazzino di “Indiana Jones”, con cui parla in mandarino, con la figlia un po’ cicciotta e lesbica, Joy, cioè Stephane Hsu, con fidanzata bianca, Becky, con cui parla in in glese, col vecchio padre appena arrivato dalla Cina, James Hong, con cui parla in cantonese, e con l’ufficio delle tasse, nella persona della cattivissima Deirdre Beaubeirdre, una grande Jamie Lee Curtis, che minaccia di farle chiudere la sua principale attività, la lavanderia a gettone Wang. E con la lavanderia crolleranno tutti i sogni della famiglia.
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Da una parte, quindi, c’è questa realtà, con la quale non è facile costruire un film stravagante. Anche perché Evelyn Wang, per quanto forte, colleziona da anni una serie di fallimenti che ne hanno fatto quella che è, una perdente. Ma da un’altra parte c’è la voglia di centrifugare tutto questo realismo cino-americano con la logica del multiverso, dei passaggi di identità da universo a universo. Solo così tutti i fallimenti di Evelyn/Michelle Yeoh si capovolgeranno di segno e diventeranno dei successi negli altri universi, al punto da farla diventare l’infallibile spadaccino che avevamo amato in “La tigre e il dragone”.
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Mentre il marito mollacchioso Waymond in un altro universo può diventare una sorta di sub-Indiana Jones come lo era stata in gioventù e James Hang un gangster come ai tempi di “Blade Runner” e “Chinatown”, che ha realmente interpretato. E la più terribile di tutti può diventare proprio la figlia Joy, in grado di incarnare il male assoluto della perfida Jobo Tupaki. Insomma. Non avete tante scelte. O accettate il film nel suo scivolamento verso le cazzatone del multiverso per vedere dove vuole portarci, o non lo accettate per nulla e lasciate perdere.
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Ma se accettate il gioco, devo dire, che c’è un grande divertimento che prima o poi vi arriverà tra capo e collo. Basta lasciarsi un po’ andare e alla fine tutto vi apparirà semplice, anche le trovate più strampalate e i meccanismi da videoclip dei due brillanti registi. E il cast, a cominciare da Michelle Yeoh, che riesce a passare dal ruolo della cinese di mezza età piuttosto sfigata a star assoluta del cinema di spade, alla minacciosa Jamie Lee Curtis che salta pronta a ucciderla, è di uno splendore che non può non sorprenderci.
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Magari le signore di Prati rimarranno un po’ sconvolte di tutto questo scivolamento nel multiverso e negli universi dove ti può capitare di avere le dita a hot dog, ma alla fine, ripeto, l’essenza è davvero una banale storia di rapporti non capiti, non sviluppati, tra moglie e marito, tra mamma e figlia. Questo lo capiscono anche a Prati, dove spesso i mariti sono più molli di Waymond.
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Ma il lato più divertente del film è proprio in questo continuo muoversi, ironico, tra quel che vediamo come effetti, messa in scena, scenografia, costumi, e le battute più comuni all’interno della famiglia. Anche negli scontri più scatenati, non si perde mai quel lato ironico e Michelle Yeoh, Stephane Hsu e Key Huy Quan riescono a uscire e entrare continuamente nei personaggi, a giocare con lo spettatore, a farlo stare dalla loro partre. In sala da oggi. Ovviamente imperdibile.
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