Andrea Camurani per il “Corriere della Sera”
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Negli scrupolosi colloqui degli inquirenti con colleghi e collaboratori di lavoro, parenti, amici sia dell'assassino che delle vittime, di lui, il 57enne Alessandro Maja, emergono queste note aggiuntive al profilo già tracciato di uomo solitario e poco loquace, uso a improvvisi scatti d'ira per inezie: un individuo esasperato in certe sue (vere o false) preoccupazioni, desideroso d'avere ogni cosa sotto controllo, spinto dal sospetto e dalla diffidenza verso il prossimo. Tutti quanti inclusi.
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A cominciare dalla moglie Stefania e la figlia Giulia, uccise nel sonno tra martedì e mercoledì, e dal primogenito Nicolò, che Maja credeva ugualmente morto e che invece rimane ricoverato in condizioni drammatiche. Quei conoscenti evidenziano una mania dell'architetto-imprenditore: i soldi. Maja era convinto che in famiglia si spendesse troppo.
Il giro del denaro
Non faceva che ripeterlo. Sgridate a Stefania, venditrice ambulante d'un anno minore, e stanca, stanchissima di quelle ossessioni; sgridate a Giulia e Nicolò, di 16 e 23 anni, che avevano preso le difese della mamma, nella speranza che Maja la smettesse una buona volta.
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E invece discussioni, arrabbiature, reiterazione dei sermoni affinché non un euro andasse perduto. Una quotidianità tesa, logorante, e forse basata su esclusive costruzioni mentali dell'assassino, il quale insisteva nel parlare dei devastanti effetti economici della pandemia sulla sua azienda, piangendo miseria.
Azienda che però, quantomeno a leggere l'ultimo bilancio depositato e dandolo per buono, cioè non truccato, vantava crediti di riserva vicini ai 200 mila euro. Insomma un generale quadro di sicurezza, grazie anche alle iniezioni di denaro contante di commercianti cinesi ai quali Maja ristrutturava bar e ristoranti.
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A meno che, certo, non vi fossero anomale situazioni debitorie e oscuri giri di denaro: scenari che i carabinieri non hanno evidenziato, in un'inchiesta che potrebbe oggi, con l'interrogatorio, generare nuovi elementi. Sempre che l'imprenditore parli e, al contrario di quanto successo mercoledì, non si avvalga della facoltà di non rispondere.
I fiammiferi
Una trincea di silenzio rotta però dalle frasi pronunciate da Maja negli spostamenti tra il primo e il secondo ospedale, e il carcere. Dapprincipio, affacciandosi in mutande dal balcone all'alba di mercoledì, dopo il massacro nella villetta a due piani a Samarate, 16 mila abitanti in provincia di Varese, aveva urlato: «Ci sono riuscito», a conferma di un piano sanguinario ideato e coltivato per settimane fino alla sua attuazione, armato di cacciavite e martello; ma nelle ultime ore, Maja ha iniziato a maledirsi, la testa fra le mani e una frase ribadita: «Sono un mostro».
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Se abbia già iniziato a orientare la linea difensiva, non è dato sapere. Di sicuro quel presunto tentativo di togliersi la vita dopo il massacro è stato piuttosto una messinscena: Maja aveva dei lievi tagli a polsi e addome; inoltre aveva una leggera bruciatura a un sopracciglio, causata dalla fiammella di un cerino.
Nella villetta
A domanda sull'eventuale rinvenimento di droga, medicinali, appunti relativi a visite psichiatriche, viene risposto che nell'abitazione, al di là della scia di sangue in ogni camera, nient' altro c'era di utile per i riscontri. Domani l'esame del medico legale permetterà la ricostruzione della sequenza della notte d'orrore, quando alle quattro Maja ha impugnato le armi casalinghe avviando il terzo massacro in cinque mesi in questa provincia ricca, impaurita, angosciata da se stessa.
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