Marco Giusti per Dagospia
jean marie straub
“Fare la rivoluzione è anche rimettere a posto cose molto antiche ma dimenticate”. Con questa frase di Charles Péguy iniziava il film più famoso di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, “Cronaca di Anna Magdalena Bach”, il film che alla fine degli anni ’60 tutti i bravi ragazzi che si occupavano di cinema e di politica dovevano aver visto. Adesso che a 89 anni anche Jean-Marie Straub ci lascia, dopo la morte della sua compagna nel 2006, si erano conosciuti nel 1954, lei a 18 anni lui a 21, e non si erano mai divisi, e a pochi mesi da quella del suo ultimo fraterno amico, Jean-Luc Godard, non per caso morto nella sua stessa città dove da qualche anno si era trasferito, a Rolle in Svizzera, l’idea di rimettere a posto cose molto antiche come l’opera degli Straub ci pare davvero un’impresa rivoluzionaria.
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Anche se il cinema degli Straub, a differenza di quello di Bertolucci o di Rocha o di Godard, non ha mai subito alcun tipo di involuzione. Quello era e quello è rimasto. Impossibile da scalfire, E fortuna vuole che molti festival, come Locarno, ma anche il Torino Film Festival, hanno provveduto in questi ultimi anni a far vedere i loro film più famosi. E che la Cinémathèque Suisse dopo aver dato la notizia della morte di Straub ha detto pure che si occuperà delle sue opere e del suo archivio. E’ quello che evidentemente voleva di più.
Ma va detto che non era facile trattare con Jean-Marie Straub. Il pubblico romano più cinéphile se lo ricorda bene per le strade del Trullo, della Magliana, di Trastevere, con l’adorata compagna Daniéle Huillet, col sigaro in bocca, il loro cane al guinzaglio. Straub e Huillet hanno abitato per anni a Roma. E non hanno solo sognato di fare la rivoluzione col cinema, parlandone quando aveva davvero senso con Glauber Rocha, Bernardo Bertolucci, Miklos Jancso in un periodo meraviglioso del secolo scorso, l’hanno proprio fatta, girando grandi film politici e durissimi, “Fortini/Cani”, “Dalla nube alla resistenza”, “Troppo presto, troppo tardi”, “Rapporti di classe”, “Sicilia!”.
Ma credo che non fosse facile trattare con Jean-Marie Straub. Non esisteva un regista più rigoroso di lui. Anzi, l’aggettivo rigoroso, assieme a non compromesso e radicale, sembrava che fosse stato inventato proprio per lui e la sua ossessione per i particolari, per gli schermi perfetti, e quindi per il meraviglioso cinema che tutti amavamo, cioè da John Ford e Kenji Mizoguchi…
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Del resto si era trattato bene in gioventù. Era cresciuto come assistente di campioni come Jean Renoir, Robert Bresson, Jacques Rivette. Aveva scritto di cinema assieme a Truffaut e a Godard. Ma l’attenzione massima era per le proiezioni dei suoi film. Ricordo che quando passavano a Fuori Orario su Rai Tre, Straub voleva controllare personalmente il telecinema, cioè il passaggio da pellicola a nastro. Si piazzava davanti al teleschermo, col sigaro e il cappotto. Nessuno poteva disturbarlo. Aveva una venerazione assoluta per l’immagine. E non si fidava dei proiezionisti. E ancor meno dei ministri della cultura e dei direttori di festival.
Nel 1999 Giovanna Melandri, allora ministro del governo D’Alema, ricorda Roberto Silvestri, negò a “Sicilia!” il premio qualità, erano soldi, perché “troppo letterario”. Troppo letterario proprio a Straub, che a Gianni Manzella in una intervista per il manifesto rispose, malgrado avesse tratto film da molti letterati, da Pavese a Kafka, da Hölderlin a Vittorini: "La letteratura non mi interessa. La letteratura al cinema è noiosa. Mi interessa il peso delle parole. Situazioni che mettono a confronto due o tre personaggi, le parole sono i rapporti fra le persone”.
Quanto ai festival… Quando nel 2006 Marco Muller, allora direttore della Mostra del Cinema di Venezia li invitò a ricevere il Leone d’Oro alla Carriera e a presentare il loro ultimo film, “Quei loro incontri”, scrissero questi tre messaggi, che riprendo sempre dalla pagina facebook di Roberto Silvestri.
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Primo messaggio. “È venuto troppo presto per la nostra morte - troppo tardi nella nostra vita. Comunque ringrazio Marco Müller per il suo coraggio. Ma cosa me ne aspetto? Niente. Nulla? Sì, una piccola vendetta. Una vendetta «contre les intrigues de la cour», come si dice nella Carrozza d'oro. Contro tanti ruffiani. Perché Pavese? Perché ha scritto: "comunista non è chi vuole. Siamo troppo ignoranti in questo paese. Ci vorrebbero dei comunisti non ignoranti, che non guasterebbero il nome".
E ancora, citando Pavese: "Se una volta bastava un falò per far piovere, bruciarci sopra un vagabondo per salvare un raccolto, quante case di padroni bisogna incendiare, quanti ammazzarne per le strade e per le piazze, prima che il mondo torni giusto e noi si possa dir la nostra?" Pavese fa dire al bastardo: «L'altro giorno sono passato sotto la Mora. Non c'è più il pino del cancello». Risponde Nuto: «L'ha fatto tagliare il ragioniere, Nicoletto, quell' ignorante. L'ha fatto tagliare perché i pezzenti si fermavano all'ombra e chiedevano. Capisci ... ».
Ancora Nuto, altrove: «Con la vita che fa, non gli posso dare del tapino. Servisse. Bisogna prima che il governo bruci il soldo e chi lo difende». Auguri
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Secondo messaggio. “D'altronde non potrei festeggiare in un festival dove c'è tanta polizia pubblica e privata alla ricerca di un terrorista - il terrorista sono io, e vi dico, parafrasando Franco Fortini: finché ci sarà il capitalismo imperialistico americano, non ci saranno mai abbastanza terroristi nel mondo.”
Terzo messaggio. “Sono stato:
1. alla Mostra di Venezia (come giornalista) nel 1954, ho scelto di scrivere su tre film: Sancho Dayu [Mizoguchi] - El Rio y la Muerte [Bunuel] - Rear Window [Hitchcock]. Niente premi!
2. Alla mostra (cortometraggi) nel 1963 col mio primo film Machorka-Muff (62): niente premio.
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3. Alla Mostra nel '66 con Nichtversöhnt (Non Riconciliati, 1965). Proiezione pagata da Godard!
4. Alla Mostra con Cronaca di Anna Magdalena Bach!
5. A Venezia per una Personale nel 1975 (voluta da Gambetti) di tutti i nostri film fino a Mosé ed Arone (incluso), 1974”.
Non me ne ricordavo più. Ma leggo su un vecchio numero di “Cinema e Film” dedicato al loro capolavoro, “La cronaca di Anna Magdalena Bach” che già allora, nel giugno del 1968, Jean-Marie Straub aveva risposto all’invito del direttore del Festival di Berlino, un messaggio dello stesso tono. Vendicativo-rivoluzionario-anticapitalistico.
“Caro Doktor Bauer,
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grazie per il suo invito, ma non verrò a Berlino,
- Perché non ho alcuna voglia di presentarmi a un tribunale che qui stesso tre anni fa condannò a morte (a porte chiuse) il mio film precedente “Non riconciliati o solo violenza aiuta dove violenza regna”
- E perché non mi piacciono i cani poliziotto né gli ispettori di polizia di polizia (anche se in borghese) e neppure le puttane (la maggior parte delle volte, ahimé, pubbliciste), parassiti e protettori (che brulicano attorno a festival del genere) di un’industria che fa prova di sempre minore immaginazione (anche soltanto capitalistica) e di sempre maggiore cinismo,
- E tuttavia mi rallegro (malgrado l’assurdità di qualsiasi competizione) che “Cronaca di Anna Magdalena Bach” venga mostrato nel quadro del festival. Per i berlinesi, che possono così vederlo su un grande schermo. E perché credo che questo film sia(anche) una protesta, perfino uno sciopero contro la legge di aiuto di Bonn al cinema e le leggi d’eccezione, e un appello a strutture sociali ed economiche che rendano ogni film accessibile a ognuno”.
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