Maria Teresa Cometto per ''Corriere Innovazione - Corriere della Sera''
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«Forse per le mie origini - sono un immigrato italiano, arrivato per nave a 11 anni - capisco il sentimento di disperazione quando sai che non hai scelta: devi vincere». Così si presenta online Doug Leone sul sito della società di venture capital Sequoia, di cui è global managing partner. Forbes lo mette al nono posto della classifica mondiale dei Mida, gli investitori il cui tocco trasforma in oro le start up. Ma lui, alla vigilia dei 61 anni, che compie il prossimo 4 luglio, e con 3,9 miliardi di dollari di ricchezza personale, si sente ancora come il ragazzino genovese sbarcato a New York nel 1968, senza la più pallida idea di come sarebbe riuscito a inventarsi il suo Sogno americano.
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«Essere un immigrato ha influenzato la mia carriera in due modi - racconta dal suo ufficio a Menlo Park, la capitale del venture capital nella Silicon Valley -. Innanzitutto mi ha dato un vantaggio competitivo, perché quando sei un immigrato non hai una vita facile, qualche giorno è buono, molti sono pessimi. E poi mi ha allenato a guardare il mondo da almeno due punti di vista. Infatti quando entri in una nuova cultura e una nuova lingua, impari a usare sia la vecchia sia la nuova prospettiva e questo è molto importante nel valutare gli investimenti».
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Parla ancora un po' la nostra lingua. «Proprio come un bambino di undici anni - scherza Leone -. La mia famiglia era piuttosto povera - ricorda -. Mio padre faceva l' ingegnere ma guadagnava al massimo 25 mila dollari l' anno. Io a 16 anni per racimolare qualche soldo lavoravo in un country club: vedevo i ragazzi ricchi giocare e flirtare con le ragazze ai bordi della piscina, mentre io sudavo e faticavo come un cane fino a tarda sera. Li osservavo e dentro di me crescevano l' ambizione, la voglia e la determinazione di farcela. Quel sentimento non ti va mai via! Ancora adesso non mi sento mai arrivato, non mi rilasso mai». Per «stare al top» Leone si alza tutte le mattine alle 4 e mezza e si allena per un paio d' ore facendo pesi e cardio. Dopo colazione arriva in ufficio fra le 7,30 e le 8. «Il mio è un lavoro che ti assorbe 24 ore al giorno e occupa tutta la vita» sottolinea.
DOUG LEONE E GLI ALTRI RE MIDA DI FORBES
Il suo primo vero impiego, dopo la laurea in Ingegneria meccanica alla Cornell University, è stato vendere computer Hewlett-Packard. «Era il 1979 e mi hanno affidato Harlem che in quegli anni non era un' area cool di Manhattan, anzi era terribile - continua Leone -. I miei principali clienti erano un ospedale e la Columbia University: è lì che un professore di Informatica mi ha spiegato che cosa fosse Arpanet e mi ha fatto apprezzare i sistemi aperti, ispirandomi poi a prendere un master in Ingegneria alla stessa Columbia e a diventare manager con Sun Microsystems. È stato un ottimo esempio di come, sbattendoti assai, puoi trasformare una situazione negativa in qualcosa di molto positivo».
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Trasferito in California, nel 1988 Leone è entrato in Sequoia, che era stata fondata nel '72 da Don Valentine, «il nonno del venture capital nella Silicon Valley».
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Sequoia ha finanziato icone dell' high-tech Usa come Apple, Cisco, PayPal e YouTube. Fra i suoi affari spicca WhatsApp, venduta a Facebook nel 2014 per 22 miliardi di dollari. Nel portafoglio di Sequoia oggi figurano unicorni come Airbnb. Da metà degli anni Novanta Sequoia è passata sotto la guida di Leone e di Michael Moritz, che l' hanno trasformata in una società globale attiva anche in Cina, India e Asia sudorientale. Ora - secondo indiscrezioni nella "Valle" - sta raccogliendo 8 miliardi di dollari per un nuovo fondo d' investimento globale, il più grande nella storia del venture capital americano.
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Fra i suoi successi personali Leone cita ServiceNow, una società di software che fornisce servizi di assistenza tecnologica alle aziende. Lui ha creduto nel fondatore Fred Lully e l' ha finanziato nel 2009. Poi l' ha convinto a non vedere la start up nel 2011 per 2,5 miliardi di dollari, sostenendo che sarebbe arrivata presto a 10 miliardi. L' anno dopo l' ha portata in Borsa e ora ServiceNow vale 33 miliardi.
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Il suo maggior disappunto è invece non aver investito in Siebel Systems, la società di software fondata nel '93 da Thomas Siebel e comprata nel 2005 da Oracle per 5,8 miliardi di dollari. «L' elemento più importante a cui guardo per decidere se scommettere su una start up - spiega - non è il solo prodotto: non basta che sia buono, deve avere un mercato in cui andar bene. Cruciale è anche il carattere dei fondatori: da come trattano gli altri si capisce se hanno le caratteristiche giuste per farcela». E come selezionare nuovi collaboratori? «Cerchiamo persone con umili origini perché sono quelle con più fame di successo».
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Nella squadra globale dei partner investitori di Sequoia ci sono otto donne. «Ci farebbe bene averne di più», ammette Leone sul sito di Sequoia. E poi precisa: «L' intera Silicon Valley potrebbe far meglio a proposito della diversità fra le sue file, non solo in rapporto al genere uomo-donna, ma anche dal punto di vista razziale». Negli ultimi 30 anni nella Silicon Valley, osserva Leone, «a cambiare è stato il cambiamento. Oggi avviene a un ritmo sempre più veloce. Nel venture capital eravamo un piccolo circolo di amici. È diventato un business enorme con una concorrenza feroce. Adesso tutti investono in start up dai primi passi (seed, ndr) alla fase pre-Ipo (debutto in Borsa). Lo fanno sia le grandi aziende sia gli individui con qualche migliaio di dollari, di tutte le nazionalità. Ma non bastano i soldi, ci vuole una strategia. Se investi alla cieca sei destinato a fallire».
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C' è una bolla nelle valutazioni delle startup? «Sì, da tempo - risponde Leone -. Dal 2008 in poi il venture capital ha investito in migliaia di start up, ma poche sono andate bene. Però una volta la Silicon Valley voleva dire solo tecnologia, oggi comprende tanti altri settori come lo spazio e l' automotive. Quindi ci sono molte più opportunità di investimento».
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