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    INDU’ VAI, SE L’ARTE NON CE L’HAI? - IL VIAGGIO DI ANTONIO RIELLO TRA MUSEI E COLLEZIONI PRIVATE IN INDIA: “L'UNIVERSO ARTISTICO È SOSTANZIALMENTE SEMI-CHIUSO E SEMBRA NON SAPPIA DAVVERO COME APRIRSI ALLE DINAMICHE GLOBALI. L'IMPRESSIONE È CHE IN VERITÀ FORSE ANCHE NON SI VUOLE CHE QUESTO ACCADA, TEMENDO UNA SORTA DI POSSIBILE E INCONTROLLABILE "CONTAMINAZIONE". E UN CERTO GRADO DI "ETNICISMO DI MANIERA" È SEMPRE SCIVOLOSAMENTE IN AGGUATO DIETRO L'ANGOLO…”


     
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    antonio riello in india antonio riello in india

    Antonio Riello per Dagospia

     

    In Europa quando si parla di Arte Contemporanea Indiana vengono alla mente generalmente solo due nomi: Anish Kapoor e Subodh Gupta (segnatamente i “buchi neri” del primo e le installazioni fatte di pentole metalliche del secondo). Entrambi vivono a Londra perfettamente inseriti nel “grande sistema” e operano con fama e successo sul mercato internazionale dell’Arte.

     

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    Va detto che a Roma nel 2011 c'è stata, al MAXXI, una bella rassegna, "Indian Highway", (un progetto condiviso con la Serpentine Gallery di Londra) che ha fatto conoscere al pubblico italiano anche altri artisti assai interessanti come, per esempio, Valay Shende e Bose Krishnamachari. A differenza della Cina, dove c'è una osmosi (non solo di mercato) molto consistente e sviluppata di artisti e opere con l'Europa e l'America, l'universo artistico Indiano è sostanzialmente semi-chiuso e sembra non sappia davvero come aprirsi alle dinamiche globali.

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    L'impressione (dopo aver visitato parecchie Università, collezioni private e Musei sparsi tra Mumbai, Delhi e Kolkata) è che in verità forse anche non si vuole che questo accada, temendo una sorta di possibile e incontrollabile "contaminazione". Attitudine che potrebbe in sè anche essere una buona cosa in una prospettiva di lungo termine ma che, al momento, induce una certa diaspora di talenti verso l'accesso naturale alle opportunità dell'Occidente che in questo caso, per ovvie ragioni linguistiche e storiche, è la Gran Bretagna.

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    L’India Art Fair che si e’ tenuta recentemente a Delhi e’ stata una occasione per avere uno sguardo abbastanza ravvicinato su quella strana creatura che e’ appunto il mercato dell’Arte nel subcontinente Asiatico.  Le tante drammatiche e vivaci contraddizioni di una societa’ che e’ smart-digitale e nel contempo fortissimamente tradizionale traspaiono implacabilmente.

     

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    La prima grande questione è l'enorme e variegato patrimonio visivo della cultura indiana che "pesa" ancora moltissimo sia sul gusto dei collezionisti che sulle scelte delle (poche) realtà che promuovono l'Arte Contemporanea. Insomma una "tradizione" ingombrante che da una parte garantisce sicuramente carattere e identità ma dall'altra tende a diventare una gabbia di cliché. E' un po' come se il superamento della grande accademia artistica (avvenuto in Europa  con le Avanguardie Storiche alla fine del XIX Secolo) qui non fosse mai realmente avvenuto.

     

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    Nel linguaggio indiano corrente il termine "Artist" significa sia "artista" che "artigiano", segno che l'abilità artigianale/manuale non viene comunemente distinta dalla creatività tout court. E un certo grado di "etnicismo di maniera" è sempre scivolosamente in agguato dietro l'angolo. La forma simbolica che in qualche modo domina quasi tutte le espressioni artistiche, maggiori o minori che siano, è l'intreccio; ovviamente quello del vimini e dei tanti tipi di tessuti/tappeti ma anche quello, meno ovvio, del legno, della ceramica e delle tante leghe metalliche (il materiale di elezione oggi è proprio il metallo nelle sue svariate declinazioni).

     

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    Il grande problema di ogni giovane artista indiano dunque è quello di riuscire ad amalgamare (con decisa personalità) i codici dell'Arte Contemporanea con quelli della propria Storia. Impresa difficile, ma non impossibile. La coppia Thukrtal & Tagra con le loro installazioni sembra in grado di accettare la sfida molto bene e così pure anche Girjesh Kumar Singh con le sue opere fatte con vecchi mattoni estratti da edifici coloniali.

     

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    Le sculture disassate di Bharti Kher sono interessanti e promettenti. Samanta Batra Metha attraverso le sue scatole/gabbie sa giocare con abilità anche con le urgenze climatiche. Superbi gli acquerelli di Anubhav Som e il grammofono (tutto fatto con lamette da barba cromate) di Tayeba Begum Lipi. La star è stata comunque l'opera "Super Gandhi" di Debanjan Roy (venduta per $ 11.200).

     

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    L'altra questione notevole è l'alto grado di entropia che distingue tutti gli aspetti della società indiana. Lo si pecepisce ovunque. A partire dal traffico, dove un profondo immane disordine sembra trovare temporaneamente, qui e là, un misterioso equilibrio che poi repentinamente risprofonda nella paralisi (il tutto sempre e comunque corredato da una persistente, inesauribile e spaventosa cacofonia dei clacson). Il senso di collettività (con rarissime eccezioni legate all'apparato militare e statale) pare una creature immaginaria, una delle tante leggende di questa antica cultura.

     

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    Manca totalmente qualsiasi coordinamento e di conseguenza anche i migliori progetti stentano ad avere risultati concreti. Individuo e Comunità sono in pratica concetti virtuali, esiste fondamentalmente solo il nucleo famigliare (più o meno allargato) ma al di fuori di questo tutte le relazioni sociali sono piuttosto fragili e difficili, se non addirittura inesistenti. Le dimensioni "relazionali" (legate alla società, alle tematiche razziali/gender e alla politica) così importanti oggi per l'Arte Contemporanea hanno quindi terreno poco fertile. Non si può criticare (o cercare di modificare) attraverso l'arte qualcosa che di fatto è come se non ci fosse (e non importa granchè con quanta intelligenza lo si faccia)...

     

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    Bisogna inoltre considerare che stiamo parlando un paese geograficamente molto frammentato, per lo più incapace di creare progetti culturali su scala veramente nazionale, a differenza della Cina. Quel che accade a Calcutta sembra interessare solo marginalmente chi vive e opera a Madras o a Mumbai e viceversa. Si parla infatti ancora facilmente più di appartenenza "bengalese" o "Maharashtra" che di identità indiana. 

     

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    Politiche artistiche di un certo respiro e impatto sembrano perciò, al momento, abbastanza improbabili. Le iniziative private ci sono, anche numerose, ma tendono a creare per lo più dei "feudi" su base unicamente locale. Non c'è insomma una "struttura" ma solo elementi sparsi di natura personale.  In sintesi: un paese di enormi risorse culturali che sa esprimersi attualmente purtroppo solo con una frazione minima delle sue incalcolabili potenzialità.

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    PS. Rileggendo distrattamente queste brevi note potrebbe sembrare a momenti di riconoscere, quasi per caso, un paese che, a differenza dell' "India Misteriosa", conosciamo tutti molto bene....

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