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    LAGER LIBIA – LA ONG “REFUGEES IN LIBYA” HA DIFFUSO LE IMMAGINI DELLE TORTURE SUBITE DAL MIGRANTE ETIOPE ABDUL RAZAQ, SOTTOPOSTO A SCOSSE ELETTRICHE. I CARCERIERI HANNO INVIATO IL FILMATO ALLA FAMIGLIA E CHIESTO UN RISCATTO DI 10 MILA DOLLARI  – QUIRICO: “ABDUL NON È NEMMENO UN MIGRANTE, SI È FERMATO PRIMA, È NIENTE. STA SPERIMENTANDO LA SOLUZIONE CHE ABBIAMO INVENTATA PER RISOLVERE IL PROBLEMA DELLA MIGRAZIONE CHE CI DÀ FASTIDIO, PERCHÉ ARRIVA DA QUELL'INSOPPORTABILE, PUZZOLENTE SUD DEL MONDO” – VIDEO


     
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    Domenico Quirico per “La Stampa”

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    Cerco un ragazzo di 17 anni, con i capelli crespi e scuri, gli occhi sono dilatati dal dolore. Si può guardare attraverso quegli occhi come se non finissero mai. È magro e sottile come la sua gente. Conosco il luogo in cui è nato, i luoghi della sua infanzia e adolescenza: il Tigrai con le ambe e le valli dove il verde si rannicchia succhiando la vita. So anche il suo nome: Abdul Razaq. Lo immagino camminare attraverso montagne e deserti, lo vedo coperto di polvere su pick up che corrono su piste segnate dall'usura dell'uomo. È uno di coloro per cui non c'è nulla che li aspetti, in nessun luogo, che devono portare tutto con sé, che sono dispersi come le perline di una catenella che si sia sfilata. Migranti.

     

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    La distanza tra il Tigrai un piccolo pezzo di mondo calpestato dall'odio e dalla fame, è di alcune migliaia di chilometri. Non so quanto tempo un ragazzo di 17 anni impieghi a percorrere questo abisso. Mesi? Forse anni? Vogliano concedergli mesi per cercare i soldi con cui pagare le tappe successive del viaggio o soltanto per riposare un po'. Non so quanto arrivare in Libia gli sia costato. I prezzi della tratta variano dipende alla domanda e dalla offerta. È il capitalismo signori, il libero mercato: droga uomini merci che differenza fa? Forse mille euro, forse di più. Non lo so.

     

    So che il suo cammino è terminato, in un posto che si chiama Janzur, Libia. No. Abdul Razaq non ha compiuto l'ultimo balzo con il gommone o la barca, il dettaglio che lo fa diventare per noi qualcosa. Da respingere o da salvare. In questo caso lo avrei trovato a Lampedusa o sulla nave di qualche organizzazione umanitaria che incrocia sulla rotta della morte.

     

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    Bandiere scolorite dei diritti dell'uomo, la svendita di un continente, marea montante del fango, da dieci anni, popoli respinti lentamente al macello. Un burocratico, mediocre avvilente crepuscolo degli dei. In fondo Abdul non è nemmeno un migrante, si è fermato prima, è niente. È finito nel setaccio che abbiamo preparato per quelli come lui, oggetti senza valore in sé ma che si possono far fruttare. Sta sperimentando la soluzione che abbiamo inventata dall'altra parte del mare per risolvere il problema della migrazione, quella che ci dà fastidio, perché arriva da quell'insopportabile, puzzolente Sud del mondo.

     

    Mi piacerebbe parlare con lui: che cosa pensa, che cosa sente, che cosa sa, cosa confessa a se stesso e cosa non vuole rivelare per pudore e per dolore a sé e agli altri. Invece mi devo accontentare di un video: disumano o semplicemente troppo umano? Vi compare solo un ragazzo tigrino che viene torturato lungamente, implacabilmente in una luce pallida, malata, gialliccia da mani senza volto con scariche elettriche al collo al petto in tutto il corpo.

     

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    Vogliono soldi dalla sua famiglia, da chiunque, diecimila dollari per liberarlo o forse solo per non torturarlo più. Non so se basteranno per far sì che salga su un barcone diretto in Italia. Speri febbrilmente che il video finisca e ti prende la paura, aspra, inspiegabile, come se quando la sequenza si chiude dovessi trovare sfasciato il mondo.

     

    Conosco i luoghi, le prigioni per i migranti, gli uomini feroci a cui noi, noi persone civili che amiamo la pace e odiamo l'ingiustizia diamine!, li abbiamo consegnati da anni. Avrei molte cose da raccontare, posso immaginare molte cose ma non voglio ricordi. Da anni ho deciso di non scriver più di migranti perché per raccontare gli esseri umani, le loro tragedie e non fare letteratura bisogna meritarselo: e io, noi che abbiamo fatto per meritarcelo?

     

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    Violo la mia promessa per Abdul Razaq: voglio guardarlo negli occhi, sentire la sua voce che non sia quel lamento di bestia torturata. Ma so che la pietà è una cosa da tempi tranquilli. Guarderemo il video. Si farà il possibile, se si può... seppelliamo i morti e divoriamo la vita. Ne avremo, noi, ancora bisogno

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