Irene Famà per “la Stampa”
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«Paura? Certo che abbiamo paura. Non l'hanno preso, non si sa dove sia. Per quello che ne sappiamo potrebbe anche essere uno studente. Uno che conosce la residenza. Sapeva come muoversi, è evidente. Sapeva che fanno i controlli all'ingresso. Si è mosso con disinvoltura. Nessuno si fida più ad andare agli ultimi piani».
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Asame Idmane, 20 anni, racconta così la sua angoscia: studentessa di odontoiatria, vive in una delle stanze del grande campus universitario nel centro di Torino, a pochi passi dal Palazzo di Giustizia. Sull'altro lato della strada, c'è una fabbrica dismessa, dove spesso si rifugiano senzatetto e disperati.
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«Qui non era mai successo niente del genere. A volte il cancello d'ingresso rimane aperto, gli addetti alla reception non sono fiscali, qui siamo tutti giovani.
Certo, hanno da ridire se qualcuno resta a dormire di straforo, ma per il resto chiudono un occhio. Più o meno tutti invitano amici in camera, per studiare o fare festa. Non è un mistero. Però, almeno dall'ingresso principale, è praticamente impossibile entrare senza essere notati».
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Altrettanto impossibile è tenere a mente tutti e cinquecento i ragazzi del campus. E riconoscere un estraneo al primo sguardo. Di fronte al cancelletto della residenza, che di notte viene aperto solo suonando il citofono, c'è un viavai ininterrotto di driver che portano pasti a domicilio nelle camere delle palazzine. Fanno parte del complesso una palestra, una copisteria, un paio di bar e alcuni uffici.
In questo angolo di città c'è una fetta di mondo: studenti provenienti dall'Europa, dal Medio Oriente, dall'Africa, dall'Estremo Oriente. C'è chi, l'altra notte, rincasando, ha incrociato le auto della polizia e gli agenti con le tute bianche per i rilievi scientifici. «Abbiamo subito capito che era successo qualcosa di grave, ma nessuno ci ha parlato di violenza sessuale», dicono in inglese due ragazze. «Aggressione sessuale? Davvero? In questa palazzina? Ne so nulla», dice in inglese un ragazzo coreano, togliendosi le cuffiette dalle orecchie.
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E chiama subito un'amica per sincerarsi che stia bene. Al campus c'è chi è arrivato da pochi mesi e chi, invece, è al termine del ciclo di studi. «Questa residenza l'abbiamo sempre considerata un'oasi felice. Protetta dalle telecamere e dal personale all'ingresso.
Ma adesso abbiamo paura», ammette un'altra ragazza, uscendo di corsa dal campus. Meglio uscire? Stare in camera? Nessun posto, lì dentro, adesso sembra essere sicuro.
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E così l'unica risposta alla paura, a quella violenza brutale che esprime disprezzo per le donne, è stare in gruppo. Insieme. Quei ragazzi sono a Torino per studiare. E hanno le famiglie lontane. Ieri i genitori degli studenti hanno chiamato senza sosta. «Mia madre mi ha telefonato molto preoccupata», dice Vito Davino. «Mio padre voleva prenotare il primo volo e venirmi a prendere», aggiunge una ragazza londinese. «Gli ho detto che non era il caso, di non preoccuparsi.
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In realtà, un po' di timore ce l'ho. Anche perché quest' uomo potrebbe essere ancora qui intorno». Gli adulti si interrogano sulle responsabilità, si chiedono che cosa avrebbero potuto fare per evitare quella violenza. «Se avessi saputo che c'era qualcuno che si aggirava per la residenza, se solo me ne fossi accorta, avrei potuto avvisare le ragazze», dice Chiara Cirulli. È la cuoca del complesso, e va da sé, per lei accorgersi di quell'uomo sarebbe stato praticamente impossibile. «Lo so, lo so. Ma questi ragazzi li conosco praticamente tutti e li proteggo come se fossero i miei figli».
POLIZIA DAVANTI LA RESIDENZA