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    IL VIDEOGIOCO DIVENTA KOLOSSAL - “THE WITCHER 3” È UN CAPOLAVORO DI PROGETTAZIONE GRAFICA E SCRITTURA - E’ COME UNA PUNTATA DI “GAME OF THRONES” SOLO CHE DURA CENTINAIA DI ORE E IL PROTAGONISTA È IL GIOCATORE


     
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    THE WITCHER 3 - TRAILER

     

    Fabio Chiusi per “la Repubblica”

     

    THE WITCHER 3 THE WITCHER 3

    “The Witcher 3” non è solo un videogioco: come ogni grande opera di fantasia, da “Guerre Stellari” a “Blade Runner”, è un modo per specchiarci nel nostro immaginario collettivo, nel linguaggio e nelle norme sociali che ne emergono, e capirci un po’ meglio. Come nessun’altra finora, tuttavia, ci riesce attraverso un’esperienza interattiva, libera, capace di sommare alle qualità narrative e visuali di libri e film la partecipazione e l’immedesimazione che solo trovarsi gettati in un mondo virtuale — ma vivo — di 140 chilometri quadrati può restituire.

     

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    Per trovarne un altro di estensione paragonabile bisogna risalire con la memoria alle origini del genere cui appartiene il capolavoro di CD Projekt Red: i giochi di ruolo “open world”, dove tutto ciò che si vede è esplorabile. Era il 1996 e Bethesda Softworks, che ha poi dato i natali a un’opera da 20 milioni di copie come “Skyrim”, aveva appena lanciato “The Elder Scrolls: Daggerfall”.

     

    Il secondo episodio di una fortunatissima serie in procinto di rinnovarsi interamente online, e tuttavia il primo a immergere davvero il giocatore in un’altra realtà tridimensionale, per quanto scarna e approssimativa, fatta di mito, tradizioni, lingue, razze, mansioni, città e campagne che si alternano a dungeon sterminati e pieni di insidie. Insomma, il padre del fantasy gaming che conosciamo oggi. Ciò che allora era inerte, statico, in “The Witcher 3” prende però letteralmente vita.

     

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    Risultato del lavoro di un team di 300 persone, compresi due compositori per la colonna sonora, il nuovo episodio dell’universo creato dai romanzi di Andrzej Sapkowski è descrivibile a grandi linee come una puntata di “Game of Thrones” lunga centinaia di ore e di cui siamo noi il protagonista, noi a decidere l’evolvere della trama con le nostre scelte — anche morali, anche profondamente umane. Il mondo è fantastico, ma abitato dal cinismo. La violenza è ovunque, come è lecito attendersi da un’era medievale in guerra e infestata da mostri di ogni tipo.

     

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    E c’è il sesso, compresa la seduzione. Di cui Geralt, il mercenario ammazza-bestie protagonista, può essere anche vittima, più che artefice — il che lascia un piacevole senso di maturità anche nell’affrontare la questione di genere, senza personaggi stereotipati e anzi presentando di volta in volta uomini e donne che sembrano davvero in carne e ossa. Ancora, di paragonabile al successo tratto dai lavori di George R. R. Martin c’è la qualità dei dialoghi, spesso a livello degli episodi migliori.

     

    Ciò che però lascia davvero di sasso è la bravura dei programmatori nel rendere reale l’esperienza in quel mondo sterminato e selvaggio. Gli alberi si piegano al vento, la luce si intreccia tra la vegetazione e gli edifici, creando panorami mozzafiato quando incontra il pelo dell’acqua o la cima di un monte al tramonto.

     

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    Ogni passante può essere fonte di storie complesse, appaganti e spesso imprevedibili, unendosi a una quantità di missioni secondarie tale da fare della principale quasi un contorno. È difficile, di fronte a un lavoro simile, adoperare le sole categorie del videogaming, limitarsi a parlare del comparto grafico e del gameplay — pure eccellenti — o perfino di longevità; un concetto che di fronte a un universo che vede già sedici contenuti aggiuntivi e due espansioni programmate perde quasi completamente di significato.

     

    L’impressione è che il gaming abbia raggiunto una maturità tale da creare da tempo opere meritevoli di valutazioni prettamente artistiche, culturali, oltre che prodotti di consumo di massa — “The Witcher 3” ha venduto 1,5 milioni di copie già prima dell’uscita e oggi è il più venduto in diverse parti del mondo.

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    È fisiologico, se si pensa che l’età del videogiocatore medio è 31 anni; e anche se le 52 milioni di copie vendute dalla violenza surreale, liberatoria e insensata di “Grand Theft Auto V” sono irraggiungibili, il pubblico di storie adulte, spesso ben più delle tante banalizzazioni manichee che vedono in lotta il bene e il male in libreria o al cinema, è in costante aumento.

     

    E non potrà che crescere, dato che essere un “mondo aperto” è ormai un requisito essenziale per qualunque gioco si proponga di fornire un’esperienza davvero ricca e avvolgente al videogiocatore. Dobbiamo dunque imparare a prestarvi attenzione, a capirne i contorni senza pregiudizi o criminalizzazioni, perché è in quei luoghi oramai ben poco virtuali che sempre più evolve l’arte dello storytelling che incanta e riempie le vite di figli e genitori.

     

    Così il piacere che si ricava dall’abbandonarsi per ore al mondo di “The Witcher 3” appare semplicemente come la prosecuzione ideale dell’habitus narrativo che ci ha portato a preferire tanto spesso i tempi delle serie tv a quelli di cinema e televisione. A volere, contraddizione solo apparente, il respiro lungo nell’era del breve e dell’immediato.

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    Ben diverso dall’idea ingenua per cui videogiocare significhi alienarsi in una realtà inumana, fatta solo di punteggi, schemi, ripetizioni e crescendo di stragi e ammazzamenti; nel caso di “The Witcher 3” equivale piuttosto a immergersi nelle viscere di una persona che ha smarrito e riconquistato la memoria, cerca donne prima che ideali, e sa bene che ogni volta decida è la vita o la morte di qualcuno — qualcuno a sua volta dotato di memoria, se graziato oppure sopravvive.

     

    Tra i pixel imprecisi di “Daggerfall” si poteva perdere la vista; qui, nella grandiosità degli spazi — europeissimi — disegnati dalla polacca Projekt Red, la si smarrisce in contemplazione: della natura, del paesaggio, degli scorci, dei fiumi, delle città, che finalmente hanno gli spazi e la popolosa rumorosità di quelle vere. C’è molto dei ritmi e della profondità di “Skyrim”, che gli sviluppatori hanno voluto deliberatamente sfidare, dopo averlo altrettanto deliberatamente amato.

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    Ma c’è sostanzialmente il meglio di tutta la concorrenza più pregiata degli ultimi anni: le indagini di “L.A. Noire”, le battaglie in campo aperto di “Far Cry 4”, l’azione di “Uncharted” e la sopravvivenza di “The Last of Us” se non, ai livelli più alti di difficoltà, perfino dell’impossibile “Blood-Borne”. Soprattutto, ci sono accenti, culture, amicizie e inimicizie. Anche loro, questo è il punto, parte dell’ambiente comunicativo e culturale che abitiamo. Anche loro in qualche modo racconto di ciò che siamo.

     

     

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