Giuseppe Mazza per il Venerdì-la Repubblica
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Benvenuti in un Natale che sembra una parodia e invece è reale. Mette insieme le armi da fuoco e le ghirlande, i revolver e le decorazioni luccicanti. Stavolta sotto l' albero troverete scene mai immaginate: bambini entusiasti di ricevere un bel fucile a ripetizione, famiglie felici di armarsi e persino un Babbo Natale pronto a passare dal camino per portarvi la carabina che più desiderate.
È la pubblicità delle armi a raccontarci nel profondo la storia del rapporto tra l' America e la violenza. Il segreto è semplice, ed è anche ciò che più inquieta: una terribile normalità. A vederla così serena, sembra non ci sia niente di male nel regalare un fucile d' assalto, per esempio un M-4 con caricatore da trenta colpi. Magari proprio quello che un ventenne psicotico rubò a sua madre per compiere la strage di Sandy Hook, nella scuola elementare dove nel 2012 morirono 28 persone, venti delle quali erano bambini tra i 6 e i 7 anni.
Impossibile capire.
Ma per avvicinarsi, forse, si può iniziare da qui. Dalla medietà di queste immagini, dal cosiddetto "buonsenso" di cui anche la destra italiana oggi si è eletta portavoce. Eccolo, il vero legame tra le smanie armaiole di Matteo Salvini e l' incubo statunitense, ancora più del generoso sostegno donatogli sui social da parte di autorevoli esponenti della National Rifle Association, la potente lobby americana delle armi. E quando mai la propaganda della violenza ha voluto spaventare o aggredire? Tutt' altro. Si presenta sempre con un volto rassicurante. E la pubblicità ci va a nozze.
Basta guardare le campagne attuali della Remington, storica marca di armi.
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Non solo all' inizio dello spot sventola una bandiera a stelle e strisce, ma lo slogan finale è il più esplicito dei proclami: This is a Remington country. Come dire: è con questi fucili che abbiamo costruito il Paese. La nazione armata, semplicemente, è la nostra nazione. Visto così, il Secondo emendamento - quello che dal 1791 stabilisce il diritto di ogni cittadino di portare armi - sembra insuperabile. Si comprende meglio allora la cautela dei grandi marchi americani nel promuovere una cultura alternativa.
Uno tra questi, Levi' s, attraverso il suo Ceo Chip Bergh, ha annunciato pochi mesi fa la donazione di un milione di dollari alle associazioni Control Gun che si battono contro la violenza armata. Un gesto significativo, certo, ma mai quanto quella timida richiesta aggiuntiva che Bergh ha addirittura definito impopolare: cari proprietari di armi, per favore potreste non entrare armati nei nostri store?
Persino un colosso come Starbucks, pur associandosi, si è affrettato a precisare di non poter impedire ai clienti di varcare la soglia delle sue caffetterie in compagnia di qualche arnese da sparo.
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E anche Walmart, la più grande catena americana di supermercati, ponendo limiti alla vendita di armi si è sottoposta a critiche e boicottaggi.
Piccoli, piccolissimi passi. Certo quando i marchi, seppure lentamente, iniziano a schierarsi, qualcosa sta cambiando. Anche perché finora le campagne Gun sense si sono mosse invece come in terra straniera, con infinita gradualità, puntando su obiettivi minimi. Negli anni novanta la Brady Campaign - una delle iniziative più celebri - diceva «Keep the illegal guns off the street», cioè evitiamoci almeno le armi illegali. Mentre la campagna Gun Safety si accontentò di ricordare l' importanza di inserire sempre la sicura. E nell' agosto scorso l' Ad Council - l' equivalente dei nostro Pubblicità Progresso - ha lanciato la campagna End Family Fire, sui rischi di tenere fucili e pistole alla portata dei bambini: gli annunci li mostrano mentre stanno per prelevare l' arma da un cassetto o dalla borsa della mamma.
Vista con gli occhi dell' Europa, l' America che vuole uscire dall' incubo della violenza sembrerebbe produrre in comunicazione solo modeste, limitate, proposte. Perché le armi restano lì. Indiscutibili. E invece chissà, in questa normalità armata, la strage di troppo potrebbe essere arrivata.
sparo
Dopo i diciassette morti della Marjory Stoneman Douglas High School - 14 febbraio 2018 - si è visto qualcosa di nuovo. A chiedere un cambiamento non sono più stati solo gli infaticabili gruppi storici (Moms Demand Action, Veterans for Gun Reform) o i leader sempre sensibili al tema, come l' ex sindaco di New York Michael Bloomberg, ma la cosiddetta generazione Z, quella dei nati dopo il '95. Il 24 marzo infatti ha sfilato per le strade del Paese March for our lives, la più popolata manifestazione studentesca dai tempi del Vietnam. Evento storico.
Non tanto per i suoi numeri ma perché questa massa proponeva una nuova normalità, quella dei figli, e dava l' impressione di poter sostituire quella dei padri. Studenti che a quanto sembra non trovano normale avere dei metal detector all' ingresso delle scuole, erano lì ciascuno con uno slogan su un cartello, come se quelle frasi spontanee fossero miriadi di pensieri condivisi sui propri social.
Anche questa è comunicazione. Ognuno di loro è un media contro la violenza delle armi. Proprio da quella marcia, insomma, potrebbero essere usciti tantissimi piccoli attivisti con un' altra idea di ciò che è "buonsenso". Diventeranno adulti, cambieranno le cose? Intanto una cosa è certa: quest' anno a Natale nessuno potrà regalare loro un mitragliatore.
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