Chiara Meattelli per la Stampa
john cale
«Dal vivo, l' importante è confrontarsi con il nuovo e l' inaspettato: vuoi spingere il pubblico a sentire ciò che provi in quel momento», spiega il leggendario musicista John Cale, 75 anni, gallese di nascita e americano d' adozione.
Il centro di ricerca sulla comunicazione Fabrica di Treviso lo ospita per la sua unica data italiana, venerdì 14: Cale alternerà brani dalla pluridecennale carriera solista a classici dei Velvet Underground, il gruppo fondato insieme a Lou Reed nella New York degli Anni Sessanta, finito poi sotto la guida di Andy Warhol.
Produttore di capolavori come Horses di Patti Smith e compositore di colonne sonore, John Davies Cale, con la viola e il pianoforte, non ha mai smesso di esplorare l' avanguardia nel rock e i suoi dintorni.
Quest' anno si celebra il 50° Anniversario di «The Velvet Underground & Nico»: un album tutt' oggi rivoluzionario. Sapevate di rompere gli schemi?
JOHN CALE
«La parte più divertente era proprio quella: non fare mai ciò che venisse facile. Non c' è nulla di interessante nel giocare sul sicuro. Però le fondamenta delle nostre canzoni seguivano una struttura classica e così dovevamo confrontarci con due metodi che all' apparenza non potevano coesistere. È in questo modo che si è creato un terzo approccio: il più interessante di tutti».
Mi fa un esempio?
«Suonare in maniera stramba, utilizzare spazi liberi di idee incomplete: a volte un atto maldestro può trasformarsi in qualcosa di non solo normale, ma anche utile.
Lo scorso febbraio ha ritirato un Grammy a nome di tutta la band: una vendetta postuma, considerato il mancato successo commerciale di allora?
«Per nulla. Ma rincuora che qualcuno sia giunto alla conclusione che le vendite sono un elemento meno interessante dell' influenza avuta sulla scena musicale».
Lei e Lou Reed eravate in buoni rapporti quando è venuto a mancare?
«Nelle dinamiche della nostra relazione, comprensibile a noi e nessun altro, io e Lou siamo sempre stati in rapporti pacifici. Ma quando perdi qualcuno che conosci da 50 anni, resta comunque la sensazione di shock e di sconforto. Mi ha ricordato delle cose ancora da fare finché siamo in vita».
reed cale warhol
Pensa a lui quando canta «If You Were Still Around» (Se fossi ancora qui)?
«La musica è il mio linguaggio preferito: mi permette di dire addio nel migliore modo che conosco».
La sua versione di «Hallelujah» di Leonard Cohen, è stata molto imitata: la turba non averci fatto neppure un centesimo?
«No. È un' interpretazione che calza a pennello e mi sta bene così».
Pensando invece al suo ultimo album «M:FANS»: dove nasce il desiderio di sconvolgere alcuni dei suoi brani storici?
«Da un certo livello di noia con me stesso che mi istiga a un capriccio. Poi quando le cose si calmano, dal capriccio si rivela un umore e nasce qualcosa di nuovo, connesso a un sentimento legato al presente piuttosto che all' idea di voler cambiare il passato».
CALE
Il gallese è una strana lingua, ed è la sua lingua madre. La considera un' influenza?
«Sono stati in molti a dirmi che il modo in cui parlo guida le mie abilità melodiche. Ma credo che valga per tutti i gallesi: siamo gente piuttosto musicale».
Cosa deve avere un musicista oggi per catturare la sua attenzione?
«Essere se stesso: strano e meraviglioso, immerso in uno stile proprio. Se è onesto e sincero, non può che essere un piacere da ascoltare».
Di cosa è pentito? Forse di aver usato droghe pesanti?
«Non si cresce senza aver vissuto ciascuna delle proprie esperienze. Ma la droga è stata una gran perdita di tempo».
L' ultima volta che ha pensato: diamine! Ho fatto pure questo nella vita?
«Mi rende nervoso guardare indietro: mi fa pensare a tutto quello che non ho fatto. Da tempo ho capito che è meglio usare le energie per fare il contrario: cercare nuove strade da percorrere, magari quelle che appaiono più improbabili. È bello darsi una sberla da soli e sapersi sorprendere. Allora sì che dico: diamine! Significa che si è vinta la paura».
LOU REED JOHN CALE