Michele Masneri per il Foglio - Estratti
contestazione collettivo filo palestinese alla biennale di venezia
Finalmente una Biennale di contrasti e contestazioni. Ieri era il primo giorno di inaugurazione a inviti della mostra e subito nel pomeriggio irrompono ai Giardini trecento manifestanti del collettivo “Art Not Genocide Alliance”, che da mesi chiede l’esclusione di Israele come il Sudafrica ai tempi dell’apartheid.
Si dirigono verso il padiglione israeliano, questi arditi dotati di invito (l’ambitissimo invito dei giorni precedenti l’apertura al pubblico), infatti non c’è stato sfondamento degli ingressi. Però arrivano e rimangono delusi, i contestatori-chic, perché Israele capito l’andazzo ha chiuso bottega da mo’, è venuto già contestato insomma.
Si dirigono allora verso il padiglione americano, e, già che ci sono, verso quello tedesco, che però ospita colpevolmente un artista israeliano. La protesta funziona benissimo, si forma subito una coda immensa e la Germania viene subito data per favorita. Nel frattempo i contestatori che urlano slogan come “la Germania è uno stato razzista” o “Israele è uno stato terrorista”, non incontrando resistenze, vengono filmati da altri invitati che pensano sia una performance, poi si dileguano tra i padiglioni.
padiglione israele biennale venezia
E’ la Biennale della confusione geopolitica: il padiglione russo, che era stato chiuso invece d’ufficio ai tempi dell’invasione in Ucraina, ora è aperto. Ma una volta entrati, si sente parlare spagnolo. La spiegazione? E’ stato prestato alla Bolivia.
I complottisti sostengono in seguito a un patto per cui Putin si è comprato le riserve di litio dello stato sudamericano. Mah. Dei visitatori russi sono indignatissimi perché entrano e pensavano di trovare arte russa e urlano qualcosa nella bella lingua di Tolstoj. Non ci si capisce più niente insomma e in questo la Biennale è, volontariamente o meno, una gran metafora del mondo stralunato in cui viviamo.
contestazione filo palestinesi a venezia
(...) Altri conflitti meno angosciosi scoppiano quando appare Chiara Ferragni alla mostra di Francesco Vezzoli al museo Correr. Con vestito-guaina nero, scosciatissimo, sollevato dal vento in piazza San Marco, e codazzo e bodyguard (ma senza Fabio Maria Damato, il suo Kissinger), mentre infuria la bufera e crollano le temperature e tutti rimediano giacconi e palandrane per ripararsi dall’intemperia, lei non contenta fa un cambio d’abito e si presenta tutta in lamé argento alla cena del mecenate bergamasco Luca Bombassei, destando scalpore tra gli eredi Picasso, il direttore del Whitney Museum, e quello di Vanity Fair italiano.
chiara ferragni a venezia
Vari gruppi sociali qui si scrutano, quello della moda milanese che sta con “Chiara” scannerizza il nuovo potere romano delle istituzioni culturali, capeggiato da Alessandro Giuli del Maxxi, e poi gli intellettuali da Biennale stravolti dalla apparizione di “Chiara” (“è proprio lei?”). Momento “Vacanze intelligenti”, però glamour. Qualcuno timidamente chiede un selfie. Postarlo o no? Drammi.
chiara ferragni a venezia
L’editore di Marsilio De Michelis la osserva. Qualche scrittore si chiede come approcciare l’icona decaduta ma ancora sfavillante. Garantismo. Qualcuno le sussurra “sei bellissima”. L’ex presidente della Biennale Roberto Cicutto si aggira sereno e abbronzato. Il nuovo, dicono, è in albergo, “si è arritirato”. Almeno qui, non c’è conflitto che non si possa appianare con qualche giro di champagne
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