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    UNO STIPENDIO PIÙ ALTO NON BASTA: PER LE PERSONE LA VITA CONTA DI PIÙ DEL LAVORO - L’ANALISI DI ADECCO: QUASI UN LAVORATORE SU TRE CERCHERÀ UN NUOVO IMPIEGO NEI PROSSIMI 12 MESI. LE AZIENDE DEVONO RIVEDERE LE PROPRIE PRIORITÀ, L’AUMENTO SALARIALE DEVE ESSERE AFFIANCATO A INIZIATIVE CONCRETE PER LA TUTELA DEL BENESSERE”. ALTRIMENTI SI RISCHIA IL BOOMERANG DEL “QUIET QUITTING”. TRADOTTO: IL DIPENDENTE SI SCAZZA E FA IL MINIMO SINDACALE, PUR DI CONSERVARE UN EQUILIBRIO CON LA PROPRIA SFERA PRIVATA


     
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    Diana Cavalcoli per www.corriere.it

     

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    Grandi dimissioni, lavoro agile, quitfluencer e dimissioni silenziose, il cosiddetto quiet quitting. Il mercato del lavoro 2022 è scosso da fenomeni diversi che testimoniano la necessità di un ripensamento dei modelli organizzativi da parte delle aziende, grandi e piccole. Un trend evidente se si guarda ai numeri della terza edizione della ricerca “Global Workforce of the Future” di Adecco, gruppo attivo nei servizi dedicati alla gestione delle risorse umane.

     

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    I dati sono chiari: a livello globale circa un terzo (27%) dei lavoratori cercherà di cambiare lavoro nei prossimi 12 mesi. Una propensione che potrebbe avere un effetto domino e originare il “quitfluencer”. 7 lavoratori su 10 ammettono, infatti, che vedere i colleghi dimettersi li spinge a prendere in considerazione l’idea di imitarli (con un 50%che poi si dimette effettivamente).

     

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    Ma cosa porta le persone a cambiare azienda e qual è la portata del fenomeno in Italia? Lo abbiamo chiesto ad Andrea Malacrida, country manager di The Adecco Group Italia. «I primi 9 mesi del 2022 sono segnati da un mix esplosivo di fenomeni. Da una parte abbiamo la ricerca di un lavoro che consenta un miglior bilanciamento tra vita professionale e privata. Pesa quindi l’aspetto emozionale e di benessere lavorativo. Dall’altra, in Italia in particolar modo, si cambia lavoro per migliorare la propria condizione economica».

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    Ai tempi dell’inflazione alle stelle, lo stipendio secondo lo studio di Adecco, rappresenta il principale motivo per cui i lavoratori decidono di cambiare occupazione. In Italia, il 61% dei dipendenti ritiene infatti che il proprio salario non sia sufficiente per affrontare l’aumento dei prezzi dettato dall’inflazione. Un problema che spesso porta ad accettare pagamenti in nero (35%), a ricercare un secondo lavoro (51%) o selezionare un nuovo lavoro perché offre uno stipendio più alto (49%).

     

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    In un contesto simile per le aziende trattenere e trovare le persone con competenze giuste può essere complesso. «Le aziende — dice Malacrida — devono rivedere le proprie priorità non affidandosi esclusivamente allo strumento degli aumenti salariali: l’incremento dello stipendio rimane senza dubbio un elemento trainante, ma va affiancato a iniziative concrete per la tutela del benessere della persona».

     

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    L’indagine sottolinea infatti i fattori che determinano la scelta di restare. I dipendenti italiani rimangono in azienda quando si sentono soddisfatti del proprio lavoro (40%), percepiscono una certa stabilità (38%) o un buon equilibrio tra vita lavorativa e privata (35%).

     

    Tra chi cerca un nuovo lavoro il maggiore benessere è centrale: il 75% predilige datori di lavoro interessati a questo aspetto. «È un tema particolarmente caro ai giovani — aggiunge Malacrida — che sono attenti ai valori aziendali più delle generazioni precedenti. Parliamo poi di una generazione per cui ancora oggi mancano politiche adeguate in termini di orientamento al lavoro».

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    I dati dell’analisi evidenziano poi un bisogno di stimoli tra chi già lavora. Quasi la metà resterebbe a patto di ottenere una progressione di carriera. Un cortocircuito se si pensa che un quarto della forza lavoro non ha mai ottenuto un confronto sul tema con il proprio datore. Il rischio è così quello del “quiet quitting”, letteralmente, “dimissioni silenziose”.

     

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    Un termine che indica la rinuncia all’impegno massimo sul posto di lavoro e un distacco mentale ed emotivo dall’attività quotidiana. In altre parole la scelta consapevole di fare il minimo sindacale. «Si tratta di un fenomeno ancora poco analizzato ma è spesso figlio di una cultura tossica sul posto di lavoro. Anche per questo bisogna rimettere le persone al centro e costruire in azienda percorsi di crescita mirati», conclude Malacrida.

     

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