Torna Mi ritorni in mente, in cui Massimo Cotto ricorda incontri memorabili con alcune star dello spettacolo. Oggi tocca a Joe Strummer, leader dei Clash, morto nel 2002 a 50 anni. Proprio il 21 agosto l'artista è stato ricordato su YouTube con la maratona A song for Joe.
Articolo di Massimo Cotto pubblicato da “il Messaggero”
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Fu facile intrufolarmi nei camerini del Lyceum di Londra, quel 20 ottobre 1981. Impensabile farlo oggi. Andai dritto verso Joe Strummer. Mi presentai. Finsi di essere quel che non ero ancora, un giornalista musicale. Dissi che scrivevo per Rockstar e gli chiesi se potevo fargli qualche domanda. Rispose: «I' m not a rockstar». Dissi: «Yes, but I am one». Rise, mi offrì una birra, ma presto si lasciò risucchiare da altre persone. Prima di svanire, disse: «Ci vediamo qui davanti, domani, a mezzogiorno».
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Il concerto era stato straordinario: 33 canzoni, adrenalina pura, entusiasmo alle stelle durante London Calling, I Fought The Law, The Guns Of Brixton e This Is Radio Clash, emozione intensa su Train In Vain. Quella sera, la terza di sette previste al Lyceum, non si respirò tensione tra i membri della band né sfilacciamenti: solo gioia e orgoglio punk. Certo, ci fu qualche sputo di troppo, che provocò la reazione esasperata dello stesso Strummer al microfono: «Anche stasera la stessa storia? C'è qualcuno che può aiutarmi? Fate smettere le persone vicino a voi che mi sputano addosso. Oppure dite loro di raggiungermi dopo il concerto. Sarò felice di sputare io addosso a loro». Non era più il 1977, quando il gobbing era parte del gioco punk, ma qualcuno stentava a capirlo.
L'ATTITUDINE
Strummer arrivò con accettabile ritardo il giorno dopo. Andammo in un pub a bere e parlare. Negli anni a venire, lo avrei incontrato molte altre volte, da solo e con i Mescaleros. Con più tempo a disposizione di quella prima volta, ma niente, nei miei ricordi, è paragonabile a quella prima volta. Parlammo di tutto, non solo di punk, ma dal punk cominciammo: «Siate voi stessi. Questo era il comandamento. Nel 1977 era tutto quello che ci interessava trasmettere. Non siamo mai stati grandi musicisti.
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Nessuno di noi aveva fatto il Conservatorio o studiato musica. Ma avevamo qualcosa da dire. Prima di noi, per fare rock bisognava essere tecnicamente impeccabili. Fanculo la tecnica. Conta l'attitudine. Non ho mai amato gli acrobati, quelli che fanno decine di piroette stando in equilibrio su una mano sola. Meglio essere concreti. I Clash lo erano. I Sex Pistols lo erano».
Gli chiesi se davvero vederli dal vivo la prima volta lo aveva spazzato via. «Non solo me. Spazzarono via chilometri di musica inutile e di inutili scuole di musica. Dei Pistols non condividevo solo lo slogan: Get pissed! Destroy!. I Clash non erano venuti per distruggere. Anche questa storia degli strumenti sfasciati. Niente a che vedere con la voglia di fare a pezzi il passato. Era più una forma naturale di ribellione. Quando ero ragazzo, con i miei amici del cuore camminavamo per le strade di Knightsbridge e distruggevamo tutto quello che ci capitava a tiro. Era uno sfogo adolescenziale. Ecco, il punk è stato lo sfogo adolescenziale di chi non ne poteva più di quei vecchi rimbambiti che pretendevano di sapere tutto di tutto. Il punk è sempre stato ignorante. Più ignorante di un asino dietro a una lavagna».
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LA POLIZIA
Aveva sempre voglia di raccontare e raccontarsi. Parlava con accelerazioni improvvise e altrettanto improvvisi rallentamenti, soprattutto quando guardava al passato: «Quando arrivai a Londra, per guadagnarmi da vivere suonavo nella metropolitana. Lo facevo anche per imparare a suonare davanti a un pubblico. Mi facevo chiamare Woody Mellor, perché adoravo Woody Guthrie. Poi cambiai nome in Joe Strummer. Ero bravissimo nel vedere da lontano la polizia, che ogni tanto passava per allontanarci. Avevo sviluppato un metodo infallibile: quando si avvicinavano, con una mano continuavo a suonare la chitarra e con l'altra mi infilavo rapidamente in testa il berretto con le monete dei passanti.
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Poi mi allontanavo in fretta. Non avevo la minima idea di cosa avrei potuto fare nella vita. L'unica cosa che sapevo era che non volevo diventare come mio padre. Era una persona onesta, ma ingabbiata. Mi diceva: Osserva le regole e la legge e potrai diventare come me. Ma io non volevo diventare come lui. Io volevo una vita che fosse solo mia». Non era mai banale. Diceva cose profonde in modo molto semplice: «Per maturare davvero una coscienza sociale e un impegno vero, bisognerebbe tenere spenta la televisione e la radio, non leggere i giornali, uscire in strada, ascoltare la gente e danzare nudi nel parco. A parte le provocazioni, è fondamentale avere resistenza. Non rinunciare. Ripetere: non mi avranno, non riusciranno a piegarmi.
Da ragazzo, a volte mi capitava di lavorare la terra per guadagnare qualche soldo. Lavoravamo a giornata e avevamo un obiettivo che ci veniva imposto. Dovevamo zappare fino ad arrivare a un dato punto. E quel punto era delimitato da una corda, che il padrone del terreno tendeva da un albero all'altro. Ora, quando guardavo la corda mi sentivo morire, perché mi sembrava che mai e poi mai sarei riuscito a raggiungerla. Così, evitavo di guardarla e mi concentravo su ogni singola zappata. Un passo alla volta, mezzo metro alla volta. Alla fine della giornata avevo raggiunto la corda. Questo è l'impegno sociale: non abbattersi e andare avanti, anche quando la fatica è tanta e pensi che non ce la farai mai».
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LE INGIUSTIZIE
Una volta, mi lasciò senza fiato perché attribuì a Dylan la primogenitura del punk: «Bob Dylan è stato il primo che ha obbligato la gente a pensare ascoltando musica. Mai nessuno l'aveva fatto prima di lui. La ribellione di Elvis era fisica, quasi automatica. Muoveva il bacino ed era come se dicesse a tutti: Ehi, non fate come i vostri genitori. Svegliatevi!. Dylan diceva la stessa cosa, ma in modo diverso. Elvis si riferiva alla monotonia delle vite americane, Dylan agli errori commessi.
Dylan fu il primo, almeno su larga scala, a lottare contro le ingiustizie, il razzismo, la guerra. Senza Dylan il punk non sarebbe esistito». Una delle ultime volte, gli chiesi di quantificare le possibilità che i Clash si rimettessero insieme. «Direi zero, ma bisogna sempre lasciare spazio agli imprevisti. Quindi ti dico: 0.5%. Bisogna capire quando è il momento di accoltellare il passato. Ho trascorso notti insonni a rimuginare su quanti errori avessi commesso e su come avrei potuto gestire meglio la vita mia e quella dei Clash. Poi, una notte, mi sono visto come un cane morente e sanguinante che correva per salvarsi. Quello ero: un cane che non voleva accettare il suo destino. E ho detto addio ai Clash. Bisogna accettare i verdetti della storia. È come i matrimoni quando vanno a male. Per quanti sforzi tu faccia, arriva sempre il momento in cui esplodi, magari per una sciocchezza, e ti scagli contro l'altro. Meglio stare lontani e ricordare i Clash quando erano i Clash».
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