Francesca Mannocchi per “la Stampa”
strage a melilla
L'Occidente si accorge dei destini degli uomini e delle donne in fuga dal continente africano quando si presentano ai confini. O vivi, chiedendo accoglienza, o morti nel tentativo di varcare la Fortezza Europa. È successo così anche tre giorni fa, quando decine di persone sono morte nel tentativo di entrare a Melilla, enclave spagnola in Nord Africa. Il Marocco parla ufficialmente di 23 morti, le organizzazioni non governative sostengono che le vittime sono 37 e che i feriti sono trecento, tra cui 49 membri della Guardia Civile Spagnola e 57 migranti che sono riusciti ad entrare a Melilla.
strage a melilla
Secondo un portavoce dell'ufficio del governo spagnolo a Melilla, venerdì scorso duemila migranti si sono avvicinati alle recinzioni per assaltarle e cinquecento sono riusciti ad a entrare in un'area di controllo del confine provocando violenti scontri.
Le organizzazioni per i diritti umani accusano le forze di sicurezza dell'uso indiscriminato della forza, e hanno diffuso due video (confermati dalla geolocalizzazione): il primo mostra decine di corpi e feriti accatastati uno sopra l'altro lungo la recinzione di confine, circondati da agenti di sicurezza marocchini in tenuta antisommossa. Il secondo mostra un soldato marocchino picchiare con un manganello un gruppo di migranti visibilmente feriti, con gli abiti strappati, stesi a terra mentre si contorcono di dolore.
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Melilla e Ceuta, l'altra piccola enclave spagnola in Nord Africa, sono gli unici confini terrestri dell'Europa con l'Africa, condizione che ha reso le due cittadine meta di consistenti flussi migratori negli ultimi anni.
Le persone in fuga da guerre, fame e povertà, cercano di raggiungere il confine di 12 chilometri tra Melilla e il Marocco e il confine di otto chilometri di Ceuta - territori protetti da recinzioni fortificate con filo spinato, telecamere e torri di avvistamento - nella speranza di scavalcare le recinzioni e raggiungere l'Europa continentale.
Per arginare i flussi migratori e tenere le persone migranti lontano dal confine, la Spagna si affida da anni alle autorità marocchine i cui abusi sono denunciati dalle organizzazioni per i diritti umani, come gli abusi della Guardia Civile Spagnola che si compie respingimenti di massa, proibiti dal diritto internazionale.
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Amnesty International ieri ha chiesto un'indagine indipendente sui fatti di venerdì e sulle violazioni da entrambi i lati della frontiera, ma tutto lascia pensare che le decine di cadaveri senza nome e nazionalità resteranno prive di giustizia nei cimiteri di Sidi Salem, alla periferia della cittadina marocchina di Nador, al confine con Melilla, che stanno preparando lo spazio per la loro sepoltura.
Sabato, dopo che sono state diffuse le immagini della strage, il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez, ha descritto il tentativo dei migranti di entrare a Melilla come un attacco all'«integrità territoriale» della Spagna e ha aggiunto che «se c'è un responsabile di quanto è accaduto alla frontiera, sono le mafie che controllano il traffico di esseri umani».
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Per l'organizzazione marocchina per i diritti umani Amdh, però, le morti sono una diretta conseguenza della recente intesa marocchino-spagnola, poche settimane dopo che le due parti hanno risolto una spaccatura diplomatica durata un anno. Quella di venerdì scorso, infatti, è stata la prima incursione di massa da quando la Spagna ha dichiarato di sostenere il piano di autonomia del Marocco per la regione contesa del Sahara occidentale, eliminando la sua posizione di neutralità decennale.
Ma per capire cosa sia accaduto a Melilla è necessario fare un passo indietro alla primavera del 2021. La lite era iniziata quando ad aprile del 2021 la Spagna ha permesso a Brahim Ghali, il leader del Fronte Polisario per l'indipendenza del Sahara occidentale, di ricevere le cure anti-Covid in un ospedale spagnolo. Gesto assai mal visto da Rabat, che chiede che il Sahara occidentale abbia uno status autonomo ma sotto la sovranità marocchina e rifiuta il referendum sull'autodeterminazione che chiede il Fronte Polisario.
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Un mese dopo la notizia che il leader Ghali era in Spagna, diecimila migranti si sono riversati a Ceuta dal confine marocchino, di fronte alle guardie di frontiera di Rabat che si sono voltate dall'altra parte in quello che è stato interpretato come un atto ritorsivo verso il governo di Madrid.
Come controrisposta, la Spagna ha approvato un finanziamento da 30 milioni di euro, in aiuti al Marocco per la polizia di frontiera.
Un accordo sulla falsariga di quello stretto tra l'Unione Europea e la Turchia, pagata per arginare l'ondata di migranti sulle coste europee dopo crisi migratoria del 2015, o quello stretto dal governo Gentiloni con la Libia per finanziare centri di detenzione e guardia costiera.
Dopo i finanziamenti al Marocco gli arrivi sono calati del 70%, secondo i dati del governo.
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A marzo di quest' anno, la Spagna si è ulteriormente avvicinata a Rabat, ribaltando la sua posizione sul Sahara, e sostenendo il piano marocchino per risolvere il conflitto nel Sahara occidentale.
Accordo che potrebbe rivelarsi effimero - come dimostra la strage di venerdì - perché, nonostante il Marocco abbia già ricevuto, a partire dal 2007, 13 miliardi di euro in fondi di sviluppo dall'Unione europea in cambio del controllo delle frontiere, è sempre più chiaro che stia cercando di ottenere altro denaro. A marzo, dopo la firma degli accordi tra Madrid e Rabat, l'Ecfr, European Council on Foreign Relations, ha pubblicato un'analisi dal titolo: «Concessioni infinite: l'inclinazione della Spagna verso il Marocco».
Scrivono gli autori che «mentre l'Europa lavora per difendere l'ordine internazionale contro l'invasione totale dell'Ucraina da parte della Russia, è particolarmente pericoloso per la Spagna sostenere le rivendicazioni marocchine sul Sahara occidentale, che ha annesso illegalmente nel 1976. In tal modo, Madrid si espone alle accuse di doppio standard».
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La settimana scorsa Jan Egeland, il segretario generale del Norwegian Refugee Council, ha diffuso l'annuale rapporto dell'organizzazione che rappresenta sulle prime dieci crisi più trascurate al mondo, comunità la cui sofferenza raramente fa notizia, popolazioni che ricevono aiuti inadeguati e che non sono al centro degli sforzi della diplomazia internazionale.
Quest' anno, per la prima volta da quando il rapporto viene pubblicato, le dieci crisi sono tutte nel Continente africano. Congo, Camerun, Nigeria, Sud Sudan, Paesi attraversati da crisi croniche o guerre decennali che scontano la stanchezza dei donatori e il limitato interesse geopolitico dei governi occidentali.
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Nonostante un'antica disattenzione su quest' area del mondo «raramente la selettività degli aiuti è stata più sorprendente di quest' anno - scrive Egeland - quando dieci crisi africane si sono confrontate con la reazione allo scoppio della guerra in Ucraina».
L'invasione russa dell'Ucraina ha infatti mostrato al mondo il divario tra ciò che si può ottenere quando la comunità internazionale si mobilita e la vulnerabilità di milioni di persone che vivono in Paesi attraversati da crisi alimentari e climatiche combinate alle guerre.
Scrive ancora il segretario del Norwegian Refugee Council che di fronte alla guerra in ucraina, le nazioni donatrici e i privati hanno contribuito alla massiccia operazione di soccorso, così generosamente che gli appelli delle Nazioni Unite sono stati finanziati quasi per intero lo stesso giorno in cui sono stati lanciati.
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Per fare un paragone, l'appello lanciato dal segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres sull'emergenza alimentare afghana pari a 4 miliardi di dollari non ha raggiunto - in sette mesi - nemmeno la metà dell'importo.
Lo stesso vale per l'azione politica. Per la prima volta nella sua storia una direttiva dell'Unione Europea da febbraio concede la protezione temporanea di un anno a tutte le persone in fuga dall'invasione russa.
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L'annosa distrazione occidentale al continente africano e l'abitudine a concentrarsi su un'emergenza alla volta, senza unire i punti della storia e i flussi migratori sulle mappe dell'atlante, però, generano un deterioramento delle persone che da mesi vivono nelle crisi in ombra. È la teoria dei vasi comunicanti. Quanti più fondi vengono destinati dai Paesi donatori alla crisi dell'Europa orientale, tanti meno ne sono destinati alle crisi nell'ombra. Togliere fondi alle crisi africane, a quella afghana, significa rendere le persone vulnerabili ancora più fragili, ancora più esposte al rischio di viaggi pericolosi, all'abuso del traffico di uomini, alla morte di fronte alle frontiere europee, di fronte alle nazioni che invece di trovare soluzioni condivise, si affidano a Paesi terzi per difendersi.
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Una storia che tristemente si ripete: subappaltare il controllo dei confini in cambio di legittimazione politica e denaro, cedendo a Paesi terzi il potere di fare pressione sui governi europei che si espongono così a una ricattabilità potenzialmente infinita. E lo strumento, a ogni angolo del pianeta, sono sempre gli esseri umani in fuga. Spesso, come nel caso di Melilla, da quelle dieci crisi tutte africane, che l'Occidente sta dimenticando, finanziando il controllo delle frontiere invece di finanziare sviluppo e assistenza umanitaria.
Melilla immigrati Melilla MIGRANTI A CEUTA E MELILLA