Leonardo Martinelli per “la Stampa”
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«Sono diventato nero a nove anni». A quell' età il piccolo Lilian, con la madre e i fratelli, arrivò dalla Guadalupa nella periferia parigina. E i compagni a scuola gli dissero «sporco nero». Da quell' episodio parte Lilian Thuram, che oggi ha 48 anni e fu l' indimenticato difensore-colosso del Parma e della Juventus, nel suo ultimo libro, «Il pensiero bianco», appena pubblicato in Francia (lo sarà l' anno prossimo in Italia da add editore).
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Lilian, fisicamente in formissima, non è finito a fare il commentatore sportivo in tv, peggio ancora il buffone nei reality show. E non ha neanche tentato la carriera di allenatore: «Quello che faccio con la mia fondazione mi sembra più necessario del calcio». Si chiama «Educazione contro il razzismo». Sì, Lilian va nelle scuole francesi a parlare di pallone, perché no. Ma anche di razzismo.
Scusi Thuram, ma lei non era nero anche prima dei nove anni?
«Nella Guadalupa avevamo tutti più o meno lo stesso colore della pelle. Ma non ero catalogato "nero". Quando si guarda la pelle di qualcuno, nessuno è veramente bianco o nero. Quei bambini, a Bois-Colombes, dove mi ero trasferito, nella banlieue parigina, avevano interiorizzato che essere nero voleva dire inferiore, che loro erano bianchi e che essere bianchi era meglio».
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Quando va nelle scuole, come lo spiega ai ragazzi?
«Faccio un gioco. Chiedo chi sia bianco e chi nero. Se uno mi dice che è bianco, gli chiedo: da quando? Lui risponde: da sempre! Allora gli mostro il foglio di un quaderno e chiedo di che colore sia. Bianco, mi dice. Lo metto accanto al suo viso e gli chiedo: la tua pelle ha lo stesso colore di questo foglio? No, risponde. Alla fine non sa perché ha detto che era bianco. Lo fa per abitudine».
Quando a nove anni ritornò a casa, sua madre cosa le disse?
«Che i bianchi erano visti come superiori. Che non sarebbe cambiato. Il razzismo era inevitabile».
Lei non si è rassegnato. Spiega nel suo libro, molto documentato, come il razzismo sia il prodotto di una cultura inconsapevole, sedimentata nel tempo
«È una costruzione ideologica. Neri e bianchi non sono esistiti sempre. In realtà il razzismo non è normale, è una volontà politica ed economica. La separazione in razze è stata fatta per dividere gli esseri umani e per sfruttarli meglio».
Con il Covid ormai si gioca negli stadi senza pubblico. Forse è meglio così, si evitano i cori razzisti
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«No, spero si possa ritornare al più presto negli stadi. Abbiamo bisogno di ritrovarci, di legami. Quando si parla di razzismo e della costruzione delle razze, vuol dire che questi legami si sono rotti».
Cosa fare, però, concretamente contro il razzismo negli stadi?
«Quando emergono problemi di questo tipo, niente impedisce ai giocatori di smettere di giocare, agli arbitri di bloccare il gioco e ai dirigenti di fermare le partite».
Ha un senso il calcio in questi tempi di Covid? Con gli stadi senza tifosi?
«Bisogna continuare a vivere e tutte le attività che sono possibili devono continuare».
Lei ritiene che ci sia più razzismo in Italia che altrove? Ne ha sofferto, quando giocava da noi, ma non l' ha detto abbastanza, perché erano altri tempi?
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«No, l' ho sempre detto. In Italia c' è un vero problema da questo punto di vista. E quello che mi rende più triste è che lo si accetti. Altrimenti, si sarebbe trovata una soluzione. Esiste un' ipocrisia generale sul razzismo, per cui si dice: non è possibile accettarlo. Ma continua da troppi anni. D' altra parte quello che emerge negli stadi è l' immagine della società. Ma non voglio fare classifiche tra i Paesi: il razzismo esiste ovunque».
Perché?
«Le nostre società si sono costruite sull' idea che essere bianchi è meglio. Come sull' idea che essere uomini è meglio che essere donne. Che lo è essere eterosessuali. Bisogna discutere di tutto questo per cambiare le mentalità. Ogni discriminazione è una costruzione ideologica e politica. La si può superare, sapendo che certe persone non vogliono, perché in questo sistema sono avvantaggiate».
Parliamo un po' di calcio giocato Pirlo può diventare per la Juventus quello che è stato ed è Zidane per il Real Madrid?
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«Non mi sembra la stessa storia. Per Pirlo è praticamente la prima volta come allenatore. Zidane, quando divenne tecnico del Real, aveva più esperienza alle spalle, con i giovani e come numero due di Carlo Ancelotti».
Lei alla Juve giocò con Zlatan Ibrahimovic, che oggi, alla bellezza di 39 anni, fa ancora la differenza in Italia. Perché è un fuoriclasse o perché il nostro calcio è sceso in basso?
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«È sicuro che il calcio italiano non ha più il livello che aveva in altri tempi, con o senza Ibrahimovic. Prima i grandi campioni giocavano nelle squadre italiane, che andavano sempre molto avanti nelle coppe europee.
Oggi non è più così. Il calcio inglese, ad esempio, ha superato quello italiano. Poi, se Ibrahimovic fa ancora la differenza, è perché è stato un giocatore straordinario quando era giovane. Fisicamente non è più così forte come allora. Ma il calcio è un gioco d' intelligenza e non lo si dice mai a sufficienza. Quell' intelligenza Ibrahimovic ce l' ha rispetto agli altri».
Consiglierebbe a suo figlio Marcus, attaccante al Borussia Monchengladbach che ha appena debuttato con la nazionale francese, di giocare in Italia?
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«Bisogna lasciare ai figli le loro scelte».
Non avrebbe paura di vederlo vittima di razzismo?
«Essere adulti significa confrontarsi con la realtà delle cose. E cercare di capire, per non soffrire».
Karine Le Marchand e Lilian Thuram Lilian Thuram et Karine Lemarchand au au eme Gala de l Union Des Artistes a Paris ke novembre portrait w