Estratto dell'articolo di Lucetta Scaraffia per “la Stampa”
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Ho incontrato Consuelo, una giovane donna ispanica di una trentina d'anni, in un albergo della California dove faceva la cameriera. È lì che mi ha raccontato la sua storia. Aveva ripreso a lavorare sei mesi dopo il momento in cui aveva partorito un figlio per una coppia di omosessuali di Chicago, e ne era ancora sconvolta.
Quando ha deciso di accettare questa proposta, due anni prima, pensava che sarebbe stato facile e poco faticoso [...] le piaceva la possibilità di guadagnare 15.000 dollari [...]
Sarebbero serviti molto alla sua famiglia [...] Era quindi andata a parlare per proporsi a una agenzia apposita [...] Il contratto che le avevano fatto firmare parlava chiaro: per nove mesi avrebbero avuto la possibilità di arrivare inaspettati a casa sua, per controllare se le regole di ingaggio erano rispettate.
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Regole di alimentazione, di riposo, di controlli medici – tutto pagato dall'agenzia – e di incontri con uno psicologo se fossero sorti problemi. Ma per questi in realtà non c'era spazio. Consuelo, ad esempio, non sarebbe stata libera di abortire qualora avesse cambiato idea, e al contrario sarebbe stata costretta ad abortire se la coppia committente lo avesse deciso.
Ma in un primo momento questa clausola, questa limitazione così forte della sua libertà, non le era sembrata così grave, così come non aveva capito bene cosa significassero i controlli medici. Pensava si trattasse di un monitoraggio della sua salute e quella del bambino. Si trattava invece di un controllo minuzioso del suo corpo.
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A cominciare da tre mesi prima dell'inseminazione, aveva dovuto assumere dosi massicce di ormoni, per garantire l'insediamento e poi la crescita di un embrione estraneo al suo utero. Il che aveva voluto dire, per un anno, nausee, pesantezza, gonfiore, spossatezza. E naturalmente nessuno l'aveva informata [...] che questa dose massiccia di ormoni avrebbe aumentato di otto volte le sue probabilità di ammalarsi di cancro, e che la stessa cosa sarebbe valsa per il feto-bambino che portava dentro di sé.
Ma questa [...] era una informazione che l'agenzia preferiva sempre omettere. [...]
Ben più difficile, anzi decisamente straziante, era stato ascoltare i primi movimenti del feto, sentire quel legame speciale che si crea fra una donna e il figlio che porta dentro, consapevole tuttavia che lui sarebbe andato a lungo in cerca del suono della sua voce, del suo odore, e lei però non ci sarebbe stata. Sapere già da ora che avrebbe dovuto separarsene: e sempre per quei 15.000 dollari.
UTERO IN AFFITTO
Consuelo non immaginava che sarebbe stato così doloroso, così come del resto era stato difficile e doloroso affrontare il parto [...] ma sapendo già che non avrebbe mai visto suo figlio. Perché questo Consuelo non aveva messo in conto: che durante quei mesi quel piccolo era diventato suo figlio. Come succede del resto a ogni madre. Non era come cuocere una torta nel forno per poi regalarla, come avevano voluto farle credere.
Parlando con altre donne e informandosi meglio in giro, aveva poi saputo che quei 15.000 dollari in realtà non costituivano che un quinto della somma complessiva pagata dai committenti. Molto di più era andato ad avvocati, medici, impiegati dell'agenzia: per loro sì che era stato un buon affare. Consuelo lo raccontava a tutti, voleva avvertire altre donne che rischiavano di venire coinvolte in questo mercato.
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Era venuta a sapere però che molte nascondevano di averlo già fatto [...] ma che si vergognavano e preferivano non dirlo a nessuno. Questa è la storia di Consuelo, così mi è stata raccontata. Mi rincresce se trascrivendola ho forse turbato la felicità di tanti genitori, come le coppie omosessuali, che si sono serviti della pratica dell'utero in affitto. Ma così come è rispettabile e vero il loro dolore per non avere figli è forse egualmente vero il dolore oggi di Consuelo per avergliene fornito uno.