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Marco Giusti per Dagospia
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Cannes. Non ho proprio dubbi a preferire il meraviglioso ultimo piccolo film di Aki Kaurismaki sull’amore tra i marginali della classe operaia finlandese spaventati dalla guerra in Ucraina e massacrati dalle politiche sociali inesistenti dei governi europei, “Le foglie morte”/"Fallen Leaves" (sì, proprio come la canzone di Prevert cantata però non da Yves Montand ma da uno sconosciuto cantante finlandese), a “Le foglie secche” del turco Nuri Bilgen Ceylan, dato per favoritissimo da molti giornali.
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Pochi al mondo hanno la leggerezza di Kaurismaki, che ha fatto il pagliaccio sul red carpet di Cannes, nel saper trattare argomenti seri e addirittura spaventosi come la guerra o la crisi economica con vignette supercomiche che faranno impazzire i cinefili. I due protagonisti senza nome, la bionda Alma Pöysti, licenziata dal supermercato dove non aveva alcun diritto sindacale per essersi portata via senza pagare un prodotto scaduto, e l’etilista Jussi Vatanen, licenziato anche lui, dopo un incidente provocato da una macchina non a regola in fabbrica, vanno a vedere lo zombi-comico “The Dead Don’t Die” di Jim Jarmusch al primo appuntamento. Quando finisce il film, due del pubblico commentano con “E’ favoloso” – “Sì, mi ha ricordato Diario di un curato di campagna di Bresson”.
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A differenza di tutti i registi di oggi, Kaurismaki si diverte a citare assolutamente a cazzo i film che ama, senza dover fare riferimenti. Anzi. Per citare Chaplin basta un finale con la coppia e il cane di lei ripresi da lontano di spalle e il dialogo “Come si chiama il cane?” – “Chaplin”. E’ allora che partone “Les feuilles mortes” cantate in finlandese. Ma sentiamo anche una versione pazzesca di “Mambo italiano” in finlandese, per non parlare della serata karaoke.
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Come spesso accade nei film sentimentali di Kaurismaki i due protagonisti che si innamoreranno l’uno dell’altra alla prima occhiata sono due anime candide che grazie all’amore riusciranno a reagire all’orrore del mondo, tra lavoro e la radio che lancia terribili comunicati sulla guerra da Mariupol, e trovare una loro felicità che dovrà coincidere con la fine del film. Come in un film di Chaplin, appunto. I meccanismi delle gag e della costruzione delle scene dimostra una qualche perfezione matematica che Kaurismaki ci mostra naturali, ma non credo proprio che lo siano. E la cosa più incredibile è che è l’unico film che ho visto a Cannes che non parla dell’ego del regista, da Moretti a Ceylan, ma parla dei problemi di oggi, degli orrori anche politici di oggi.
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