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    LA COCAINA È NELLA TUA VITA ANCHE SE NON LO SAI - OGGI PARTE SU SKY ''ZEROZEROZERO'', LA SERIE CREATA DA STEFANO SOLLIMA. CHE RACCONTA A MALCOM PAGANI IL FOLLE PARTO DI QUESTO PROGETTO: ''LA COCAINA O L’HAI ASSUNTA, O L’HAI VISTA, O L’HAI COMPRATA O HAI QUALCUNO A CUI L’HAI VISTA USARE. E ANCHE SE NON HAI FATTO NULLA DI TUTTO QUESTO LA TUA BANCA POTREBBE AVER RICICLATO I CAPITALI DERIVANTI DAL NARCOTRAFFICO E I TUOI VESTITI POTREBBERO ESSERE STATI PRODOTTI DA UN’AZIENDA FINANZIATA CON SOLDI SPORCHI'' - MA ANCHE LA SUA VITA: ''A UN CERTO PUNTO MI SONO COMPORTATO DA COGLIONE. PER FORTUNA ABBIAMO TUTTI UN’OCCASIONE DI RISCATTO''


     
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    Malcom Pagani per ''Vanity Fair''

     

    Una volta Tripoli, l’altra Timisoara: «A vent’anni facevo una vita molto disordinata e infinitamente diversa da quella dei miei coetanei. Non avevo una casa, un armadio, un orizzonte certo. Partivo per raccontare gli scenari di guerra da cameraman e poi ritrovavo gli amici di sempre al bar. “Ciao Stè, è tanto che non ti vedo. Cosa fai domani sera?” , “Non ne ho idea, forse parto per la Romania”».

     

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    Nella nazione che si preparava al crollo di Ceausescu, al tramonto del 1989, Stefano Sollima, 54 anni a maggio, imparò una lezione che nei decenni successivi ha trascinato in tutti i suoi film: «Per ragioni diverse, a volte ideologiche, altre semplicemente dovute allo scarso approfondimento, la realtà non è mai quello che sembra. Per cercarla, non accontentarti della versione ufficiale e non fermarti alla superficie delle cose, devi andare controcorrente. I maggiori network del mondo, giornali e televisioni, raccontarono di migliaia di morti torturati dal regime comunista e ritrovati nelle fosse comuni. Le immagini dei corpi fecero il giro del mondo. Cercammo le fosse, ma non ne trovammo traccia. Mesi dopo si stabilì che nel contesto di un golpe bianco si era trattato di una gigantesca manipolazione mediatica: chi era lì non tardò a rendersene conto, ma all’esterno, nella percezione generale, l’eco di quell’orrore costruito a tavolino era ormai entrato nell’immaginario collettivo».

     

    stefano sollima stefano sollima

    Per costruire l’avventura di ZeroZeroZero e trasformare l’inchiesta di Roberto Saviano in una serie presentata all’ultimo Festival di Venezia, a Sollima è servito andare al di là delle apparenze: «Affrontato con gli occhi del raziocinio, ZeroZeroZero era un progetto che sfiorava la follia e non aveva nessun senso logico né produttivo. I discorsi che facevo con i produttori di Cattleya, Gina Gardini e Riccardo Tozzi, erano appassionati, però poi, quando si trattava di strutturare un prodotto che prima di vedere la luce avrebbe avuto tre anni di preparazione, viaggi, interviste e sopralluoghi, ci venivano le vertigini: “Bellissima ipotesi, ma non troveremo mai le risorse”. Le abbiamo trovate dimostrando che l’unico vero limite che possa frenarti sei tu. La tua capacità di sognare. Il desiderio che ti anima».

     

    Che desiderio la animava?

    «Raccontare la complessità di un fenomeno come la globalizzazione usando come punto di vista deformato il traffico di una delle merci più controverse che esistano. Mostrare le contraddizioni e i riflessi sulla realtà sociale del traffico di cocaina senza praticamente mai vederlo era interessante».

     

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    Lei presenta la cocaina come anello di congiunzione di mondi apparentemente lontani tra loro.

    «La cocaina è presente nella vita di chiunque. O l’hai assunta, o l’hai vista, o l’hai comprata o hai qualcuno a cui l’hai vista usare. E anche se non hai fatto nulla di tutto questo la tua banca potrebbe aver riciclato i capitali derivanti dal narcotraffico e i tuoi vestiti potrebbero essere stati prodotti da un’azienda che in parte, almeno all’inizio, potrebbe essere stata finanziata con capitali di provenienza illecita. Una riflessione che ho sempre trovato sconvolgente e su cui valeva la pena sviluppare una narrazione».

     

    Che tipo di narrazione?

    «Non un flirt, ma una storia d’amore. Un progetto come ZeroZeroZero ti porta via alcuni anni di vita. E la vita non è illimitata, bisogna scegliere bene le navi su cui imbarcarsi».

    A vent’anni navigava su una zattera.

    «Sono stato in mare aperto  fin da quando ero bambino. Mia madre è morta quando avevo nove anni. Così, da un giorno all’altro. La mattina prima stava benissimo e poche ore dopo non c’era più. Per accettare una realtà simile, ammesso che la si possa mai accettare, servì tempo».

     

    Iniziò a seguire suo padre Sergio, regista, in giro per il mondo.

    stefano sollima roberto saviano sul red carpet a venezia stefano sollima roberto saviano sul red carpet a venezia

    «Per qualche anno praticamente ho vissuto tra l’aeroporto e il set. Non erano set qualsiasi. Andavi in Malesia o in India, tra elefanti e piroghe, Sandokan, perle di Labuan e corsari neri in un contesto salgariano e poi occasionalmente, quando le condizioni lo permettevano o la scuola costringeva agli obblighi, tornavi a casa. Essere destabilizzato era normale. Poi a 13 anni, per un lungo quinquennio, finii in collegio. Un’esperienza alla quale provai a ribellarmi senza fortuna».

     

    Era un’imposizione alla quale sottrarsi?

    «Per anni, a causa di quella scelta, con mio padre ebbi rapporti freddi. Ma da adolescenti, è noto, si è sempre un po’ coglioni. E uccidere il padre perché così pensi di crescere e diventare adulto è un meccanismo persino banale. Mi riavvicinai a lui più tardi in maniera molto plateale, quando una serie di cose le avevo capite, interiorizzate, metabolizzate».

    Cosa aveva capito?

    «Che con la vita che conduceva mio padre non avrebbe potuto fare altrimenti e che il bianco e il nero non esiste. Siamo tutti buoni e tutti cattivi, a tutti noi è capitato di fare male agli altri e interpretare il ruolo del santo o del bastardo. Negarselo è comprensibile, decidere a priori che non è vero, arbitrario. Siamo tutti personalità complesse e la vita ci porta a fare delle scelte. Giudicare è troppo facile».

     

    Anche al cinema?

    «Assolutamente. Il nostro cinema civile che seppe produrre esempi anche grandiosi lo faceva spesso. Io non giudico nessuno. Provo a mettere in dubbio il concetto di bene e di male. Cerco le sfumature. Tento di creare disagio allo spettatore senza dargli certezze, lo responsabilizzo e al limite lo provoco. Giudichi lui, se vuole. Io non lo indirizzo».

    Perché?

    stefano sollima stefano sollima

    «Perché amo tutti i miei personaggi, anche i più riprovevoli. Perché lo troverei un atteggiamento che lambisce la disonestà e perché, tutto sommato, mi pare un approccio poco interessante. Per esaltare o condannare qualcuno basta orientare il punto di vista. Puoi mettere sotto la lente solo gli errori, collezionarli e costruire un ritratto negativo. Ma se sei rispettoso della realtà racconti tutti gli elementi in gioco: fanno parte della ricchezza e della bellezza dell’essere umano». 

    Cosa ama del suo mestiere?

    «Raccontare l’ambiguità dell’uomo, le sue zone d’ombra, la sua doppiezza. Riuscire, anche se non sempre accade, a porre domande intelligenti».

     

    Suo padre fece in tempo a vedere i suoi film?

    «Vide con cognizione il solo Romanzo criminale. All’epoca di Gomorra purtroppo già non stava più bene».

    E cosa disse di Romanzo criminale?

    «Che era fantastico e che non si capiva un cazzo».

    Prego?

    «Papà era della vecchia scuola. Una scuola in cui la lingua non era un accessorio fondamentale nel realismo del racconto. Da quel punto di vista i registi di ieri erano più liberi e si facevano meno seghe mentali di noi. Facevano il cinema: un grande spettacolo. Non era poi così importante che un personaggio messicano parlasse il vero dialetto messicano di una particolare zona».

     

    sollima sollima

    Che dialetto parlava in collegio?

    «Il dialetto della solitudine e anche quello dell’unità di gruppo attraverso la quale anche il solitario diventa più forte. È un concetto che ho messo in quasi tutti i miei film perché la solidarietà maschile è un valore in cui credo, così come credo nell’amicizia. Per le cose che mi sono accadute nella vita tendo magari a pensare cinicamente che nessuno verrà dall’alto a salvarti e che te la dovrai comunque cavare da solo, ma nel lavoro e nella vita da solo, senza ascoltare gli altri o appoggiarmi a loro, non sarei andato da nessuna parte».

     

    Com’era il panorama dopo cinque anni di collegio?

    «Incerto. Servivo caffè e birre ai tavolini di un bar di piazza Navona. Un giorno passò Flavio, un amico, mi vide vestito come un pinguino e mi domandò se volessi fargli da fonico per la parata militare del 2 giugno. “Perché no?” dissi. Partì tutto da lì. All’epoca non potevo supporre che avrei seguito in prima linea la Guerra del Golfo».

    È anche per quelle esperienze che sembra trovarsi a suo agio a girare in zone pericolose del mondo?

    «Sicuramente sì. Ma all’epoca non c’era un pensiero dietro. Ti dicevano “Partiamo?”. E tu partivi».

     

    Non aveva paura?

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    «Ce l’avevo. Ed era un bene. Avere paura è normale perché ti trovi in situazioni pericolose e alla paura devi dare ascolto perché è quella che ti fa restare concentrato, ti permette di non fare errori e ti aiuta a non rilassarti e a non sottovalutare nulla».

    Lei cosa sente di aver sottovalutato nella sua vita?

    «Tante cose. Ma io sono un casino totale. Sono vissuto quasi tutta la mia vita da solo per cui da un lato sono egoriferito e dall’altro fin troppo autosufficiente. Certe volte, nelle relazioni, l’autosufficienza rappresenta un condizionamento. Anche grave».

     

    È mai andato in analisi?

    «Per un paio d’anni, con una persona meravigliosa, una donna di rara brillantezza, con la quale se potessi andrei a cena tutte le sere e che ogni tanto chiamo ancora per un consiglio: “Tu che faresti nella mia situazione?”».

    Perché ha smesso di andarci?

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    «Perché come le ho detto, vivo nel delirio. Un giorno a Los Angeles, l’altro sulla frontiera messicana, l’altro ancora a Berlino. Non me ne lamento perché sarei un ingrato e perché so che sarei punito. Faccio, ben pagato, un mestiere che farei anche gratis».

    Le sarebbe piaciuto avere la testa che ha adesso quand’era ragazzo?

    «Per carità, pensi che palle. Io ero vecchio già a trent’anni: sarei stato insopportabile».

     

    Ha messo ordine nella sua vita?

    «Non mi stupisco più di ritrovare dopo mesi un paio di mutande o di jeans sepolti sotto gli interstizi del letto e da un certo punto di vista mi sono normalizzato. Ma un ordine definitivo, credo, non me lo darò mai. Esattamente come da ragazzino faticavo a immaginarmi a trent’anni, oggi arranco se provo a programmare i prossimi tre mesi».

    Cosa ha capito nei suoi primi 53 anni?

    «Che tra quello che ci aspettiamo ci accada e quello che accade veramente passa tutta la differenza del mondo. Per riuscire a realizzare le tue aspirazioni, talento e perseveranza purtroppo non bastano».

    stefano sollima stefano sollima

     

    Cosa serve in più?

    «Un colpo di fortuna. Statisticamente prima o poi capita a tutti: il difficile è farsi trovare pronti, capire quanto tocca a te, evitare di farsi soffocare dai rimpianti».

    Lei è stato più bravo o più fortunato?

    «Non lo so, credo 50 e 50. Il difficile, una volta superata la gavetta, è mantenere la tua integrità. Quella è sempre a rischio. Sta a te meritartela. A te difenderla. Anche da te stesso».

    Quali sono stati i suoi colpi di fortuna?

    «Il principale? Aver capito che non ero un genio. All’inizio ambivo a un cinema alto, da Festival, senza averne la struttura. Mi mancavano la conoscenza della complessità dell’industria con cui pretendevo di parlare da pari a pari e la pazienza di saper aspettare il mio momento. Andai a Cannes con un cortometraggio, Sotto le unghie, e un po’ la testa me la montai».

     

    Cosa contribuì a riportarla a terra?

    «Sbattere il muso contro la realtà. Alla terza porta chiusa in faccia smetti di volare con la testa e scendi a terra».

    E a terra cosa trovi?

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    «Meno arroganza. Meno presunzione. Meno sicumera. Riscrivi i tuoi piani e pensi: “Magari non sono un genio, è più facile che sia un coglione”».

    Ma lei un coglione non è.

    «Ma a un certo punto della mia vita mi sono comportato come tale. Per fortuna abbiamo tutti un’occasione di riscatto». (sorride)

     

    La sua fu la televisione.

    «Feci Un posto al sole e poi una fiction per Canale 5: Ho sposato un calciatore. La televisione, all’epoca, in Italia era considerata più o meno il Nadir del mio lavoro. La serie Z. Mentre all’estero Hbo e altri network simili già producevano storie molto interessanti. Mi scrollai di dosso la superbia e mi misi a studiare una nuova realtà».

    E cosa successe?

    «Quello che le dicevo prima. Dopo le prime esperienze arrivò la mia occasione con Romanzo criminale. Non la fallii. Ma c’è voluta l’umiltà di capire che non ero il migliore del mondo, che c’erano persone che ne sapevano più di me, che, alla fine, il cinema non è solo un lavoro meraviglioso, ma è soprattutto un lavoro di gruppo».

     

    Ora ha una caratura internazionale e le affidano budget di decine di milioni di dollari. Si sente in un altro campionato?

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    «Non ci voglio neanche pensare. E se me lo dicono mi tappo le orecchie. Quando ti dici: “quanto so’ bravo” perdi subito il contatto con la realtà».

    Nel suo mestiere è facile?

    «Semplicissimo. Sbagli un film e torni al punto di partenza se non ancora più indietro. Sa com’è la storia, no?».

    Com’è la storia?

    «Prima sei la giovane promessa, poi il venerato maestro e infine il solito stronzo. Spero di non diventarlo mai».

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    Alternative?

    «Prepararsi qualche convincente piano B: tanto lo saprà, non esiste un solo regista sulla terra ad aver cambiato il mondo».

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