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    MERLO CONTRO MERLO - “REPUBBLICA” SGUINZAGLIA IL MERLO ZIO PER RISPONDERE AL MERLO NIPOTE CHE SUL “FOGLIO” MINIMIZZA MAFIA CAPITALE A CLAN DI CRAVATTARI DI QUARTIERE


     
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    1 - CHI HA PAURA DI CHIAMARLA MAFIA

    Francesco Merlo per “la Repubblica

    SALVATORE MERLO SALVATORE MERLO

     

    Il famoso «la mafia non esiste» si è trasformato in «la vera mafia sta altrove», ma negare la mafia rimane tipico della mafia, la prima prova a carico per applicare il 416 bis. Intanto perché i boss babbìano sempre.

     

    Dagli antenati don Calò e Genco Russo — «noi la chiamiamo amicizia» — sino ai nipotini Carminati e Diotallevi: «Eravamo degli straccioni, solo un gruppo di cani sciolti». E poco importa se il loro babbìo negazionista non si conclude con «baciamo le mani» ma con «li mortacci tua». Nell’idea che «questa non è mafia » c’è anche, e forse soprattutto, l’autodifesa di un mondo (di mezzo?) che non vuole scoprirsi e accettarsi come complice.

     

    «La mafia è diventata policentrica», disse il generale Dalla Chiesa a Giorgio Bocca e stava parlando di Catania, che a quell’epoca reagiva negando, formando comitati di difesa e contrapponendo l’antropologia levantina a quella araba, i carusi chiacchieroni e senza mistero «che uccidono con la risata» ai picciotti di panza e sottopanza con i piedi incretati, l’innocenza della truffa d’Oriente alla precisione della lupara d’Occidente.

    francesco merlo francesco merlo

     

    E poi Siracusa e Messina non potevano essere mafiose perché erano provincia babba. E a Reggio Calabria erano invece troppo anarchici, troppo Ciccio Franco, troppo umore di terremoto che non sopporta disciplina: feroci sì, ma di natura sregolati e strafottenti. E così via distinguendo sino a Roma appunto dove è subito arrivata, con la mafia, la disputa linguistica e storica sulla parola mafia perché, come insegna la teologia, la suprema astuzia del diavolo è far credere che non esiste.

     

    È vero che c’è una profondità di differenza, anche in termini di fuoco e di simboli, perché all’Atac non sono trovate teste di capretto mozzate né è stato usato il tritolo nella sede dell’Ama. Ma anche le diversità fanno mafia alimentando e non impoverendo la ricchezza del fenomeno criminale e dunque dei futuri studi comparati.

     

    MASSIMO CARMINATI MASSIMO CARMINATI

    Infatti sono già all’opera gli esperti che, a partire dall’oziosa ovvietà che Roma non è Palermo, stanno mettendo a confronto codici e grammatiche. E forse la prima grande novità è che Mafia Capitale non è la sciasciana linea della palma che sale verso Nord, ma è la geografia che scende. È Roma che, smottando verso Sud, è ormai diventata Mezzogiorno di suk e di illegalità.

     

    L’abusivismo di piazza Navona, la sporcizia per le strade, le buche, il centro storico assediato, le “croste” dei parcheggi in terza fila, la metropolitana senza decoro, i lavori pubblici eternamente incompiuti, la cultura come enorme baraccone di incompetenze, le esecuzioni per strada … … sono già identità meridionale e scenografia di mafia anche se l’Opera di Roma è al tempo stesso uguale e distinta dal Massimo di Palermo, e il Corviale è diversamente Zen, e Tor Sapienza (non) è Librino così come Carminati (non) è Matteo Messina Denaro …

     

    BUZZI CARMINATI BUZZI CARMINATI

    Insomma la geografia non è filosofia e non si accontenta di surrogati, ma propone scenari nuovi. Il potere a Roma è relazione gnam gnam, e a Palermo è oppressione bum bum. A Roma l’affare si imbroglia e a Palermo si sbroglia. I circoli sul Tevere non sono cupi come le concessionarie d’auto di Santapaola ma anche a Catania, come adesso a Roma, i distributori di benzina (ricordate Calderone?) sono stati le scuole-quadri della mafia. A Roma i covi sono i bar, e la buvette del Campidoglio ha il ruolo che a Trapani ebbero le cliniche private di Aiello e Cuffaro.

     

    Certo, l’innocente e brava Serena Dandini, sponsorizzata dalla cooperativa di Buzzi, non ha lo stesso ruolo che i neomelodici hanno a Napoli, ma nella Roma delle relazioni la Melandri ha lavorato per 15 anni con l’amico commercialista Stefano Bravo che riciclava i soldi di Buzzi e Carminati. E Odevaine, prima ancora di diventare capo di gabinetto di Veltroni, era con lei in Legambiente. Ed è vero che il sindaco Marino non poteva sapere che la cooperativa di Buzzi era criminale. Ma perché ha accettato finanziamenti da un’azienda che faceva affari con il comune di Roma e a cui il Comune, dopo l’elezione, concesse a prezzi d’affitto stracciati i locali di Via Pomona?

    MASSIMO CARMINATI DA GIOVANE MASSIMO CARMINATI DA GIOVANE

     

    A Roma sono tutti “amici”, ma non nel senso dell’omertà palermitana. Già negli anni Trenta, fra sacrestie e conferenze, Andreotti andava a trovare a Rebibbia il suo amico comunista Adriano Ossicini e gli portava le torte di mamma Rosa. E intanto frequentava la segreteria di Stato di Pio XII. Nella Roma dei ponti, «il ponte Andreotti» congiungeva il Vaticano e Botteghe Oscure. C’era di tutto in quel pezzo di storia contemporanea ma non c’era la mafia. C’era l’assassinio di Pecorelli, di cui furono accusati e poi assolti — guarda caso — Andreotti e Carminati. Ma non era ancora mafia.

     

    Tutto questo solo ora è diventato quel pasticcio meridionale che anima la terribile degradazione della politica, la sua resa alla mafia. Quel Pd criminale che ieri su Repubblica ci ha raccontato Giovanna Vitale è l’erede del partito comunista di Maurizio Ferrara, di Antonello Trombadori, di Giancarlo Pajetta, sino agli eroi della Resistenza e delle Fosse Ardeatine.

     

    Come può rassegnarsi alla mafia chi li ha conosciuti, chi ci credeva? Anche io, se fossi per famiglia, per amicizie o per storia, il custode di quel mondo negherei con sarcasmo che quell’apostolato civile possa essere diventato mafia. Buzzi, nell’intervista a Report del 2007, aveva il Quarto Stato dietro la scrivania perché la sua cooperativa, dove si incontravano i redenti e i dannati, è la degenerazione del cattocomunismo romano, della carità coniugata con la solidarietà di classe, della pietà e della mano tesa alla schiuma della terra.

    MASSIMO CARMINATI NEGLI ANNI OTTANTA MASSIMO CARMINATI NEGLI ANNI OTTANTA

     

    Come è possibile che il vecchio segretario di sezione di quel partito sia stato sostituito dal monatto manzoniano? Com’è possibile che il funzionario del sol dell’avvenire sia diventato il Caron Dimonio che traghetta e deruba le anime in pena verso la speranza? Credevano, quegli uomini, che i banditi fossero i ribelli primitivi da trasformare in rivoluzionari o in santi grazie al catechismo di Marx o al Vangelo di Gesù. Come si può accettare che, nel loro nome, i naufraghi siano oggi il pretesto per i più sordidi affaracci mafiosi?

     

    E sono paradigmi depistati persino quelli tolkieniani e dei Nar che, sebbene malviventi e fascisti, avevano comunque in testa un progetto di società, un brandello di idealismo, una distopia più che un’utopia. Quella spada giapponese di Carminati, per esempio, è tutto quel che gli resta dello squinternato armamentario culturale, da Evola a Guénon all’antimodernità del Samurai di Mishima con l’arma bianca, feticci anche per Alemanno che fu l’orsuto attor giovane del rautismo. Quel confuso ragazzo pugliese con il mito della romanità, che posava a ideologo, è il primo responsabile politico della Mafia Capitale, una sorta di Ciancimino de Roma, non si sa quanto consapevole.

     

    Come reagirebbe Almirante e cosa direbbe il pittoresco Teodoro Buontempo che dormiva in una Cinquecento? La destra degenerata in mafia è una triste novità romana che a Palermo non si era mai vista e che seppellisce tutto il mondo degli ex camerati e fa deragliare anche il sogno di Giorgia Meloni, la reginetta di Coattonia, candidata sindaco dalla nuova Lega di Salvini.

     

    massimo carminati massimo carminati

    A Roma i fascisti a non sono più fascisti, sono mafiosi. Come si vede, a Roma anche la resistenza alla parola mafia è trasversale, è una larga intesa. A New York, prima di battezzare “mafia” la mafia la chiamavano “la mano nera”. La mafia infatti non è mai un trapianto, non è un’emigrazione.

     

    E adesso è “romana de Roma”, cioè una gran confusione circondata dalla storia come dal mare, uno stridio di uomini e un definitivo pervertimento di ideali apparentemente inconciliabili, un pascolo immenso sul quale non si ancora chi davvero ha regnato e chi regnerà. Ed è un melting pot che si preannuncia longevo e solido perché è vero che “natura non facit saltus”, ma Roma lo ha fatto. La sua umanità bonaria e cinica ha preso la durezza e la violenza della mafia, ma in un’eternità di foresta.

     

    2 - BEL COLPO PIGNATONE, MA QUESTA DI ROMA PROPRIO MAFIA NON È

    Salvatore Merlo per "il Foglio"

     

    Non ci sono i rituali né gli omicidi, nessun cadavere infilato nel cemento armato, non c’è la “famiglia” e non c’è la “commissione”, non esiste la struttura militare dei “soldati” e dei “capidecina”, non c’è il radicamento e il controllo del territorio, non c’è quell’uso “bestiale”, “sistematico” ed “estensivo” della violenza armata.

     

    ERNESTO DIOTALLEVI ERNESTO DIOTALLEVI

    E insomma Salvatore Lupo, cioè il più illustre storico della mafia, professore all’Università di Palermo, autore per Donzelli di “Storia della mafia” cioè uno dei più famosi e tradotti saggi sul fenomeno criminale siciliano, lo dice con la schiettezza delle cose ovvie, con la voce piana con la quale ci si consegna a una tautologia: “Naturalmente, come tutti sanno, la mafia, nella sua qualità di fenomeno storico, antropologico e sociale, non c’entra niente con l’organizzazione criminale romana di cui tanto si parla in questi giorni”. E il professore non intende abbandonarsi a una discettazione di carattere nominalistico, né tantomeno intende minimizzare, o negare.

     

    “A Roma è stata illuminata una pericolosa organizzazione che aveva legami criminali con la politica”, dice. “E se viene smantellata una banda di criminali a me fa piacere, e non dico che i magistrati sbagliano. E infatti penso che l’aver attribuito a questa organizzazione criminale la qualità di organizzazione mafiosa abbia messo a disposizione della procura degli strumenti d’indagine e di repressione molto efficaci, straordinari.

     

    Gli strumenti speciali che la legge prevede per il contrasto alla mafia. E questo non è di per sé un male, ovviamente”. E insomma, se c’è “una patologia criminale”, dice il professor Lupo, tutti noi cittadini siamo contenti che venga curata. “Tuttavia”, aggiunge, “per me quella di Roma non è mafia. E non è nemmeno la banda della Magliana, che aveva delle caratteristiche precise. Può essere forse una mafia in potenza, un sistema mafioso che sta per sbocciare, o può anche essere tutt’altro.

     

    ERNESTO DIOTALLEVI ERNESTO DIOTALLEVI

    Non tutte le organizzazioni a delinquere sono mafiose”. Ma allora la mafia com’è fatta? Quali sono le caratteristiche che distinguono la mafia da una qualsiasi altra associazione a delinquere? E in cosa l’organizzazione comandata da Massimo Carminati differisce dalla mafia? “La mafia è organizzata in gruppi strutturati che si autoperpetuano”, dice il professore. “Il comando si eredita come una corona, ci sono legami di sangue, precise iconografie rituali. E poi c’è la violenza, una violenza esercitata su larghissima scala, come purtroppo ben sappiamo tutti noi italiani”.

     

    Eppure Carminati la violenza la esercitava. Nelle carte dei magistrati risultano infatti intimidazioni, minacce, estorsioni… “Certo che esercitavano la violenza”, risponde Lupo. “Ma qualsiasi banda di usurai che ricorre alla violenza è mafia? Forse per la legge sì. Non so. Per me la mafia è un sistema criminale che controlla militarmente un preciso territorio, e lì esercita il monopolio di tutta una serie di attività come lo spaccio di droga o il traffico di armi. Si insedia e si riproduce. In altri casi la mafia è un sistema organizzato che esercita le sue attività su vastissima scala, anche internazionale. Esistono enormi ‘gang’ di tipo planetario capaci di impiegare una violenza militare con rapidità esplosiva, persino letteralmente esplosiva”.

    SALVATORE BUZZI OMICIDA SULL UNITA DEL 1980 SALVATORE BUZZI OMICIDA SULL UNITA DEL 1980

     

    E tutto questo la banda di Carminati non lo era. Ma qui il professore sorride, abbassa la voce d’un semitono. “Ovviamente di tutto ciò che penso io il procuratore di Roma, il dottor Pignatone, se ne può impipare. E fa pure bene a impiparsene. Perché se è vero che la mafia dal mio punto di vista c’entra poco o niente con questa storia, rimane pure vero che il concetto di mafia è anche definito dal diritto. E presto saranno dei magistrati giudicanti, a verificare se davvero questo fenomeno di Roma è equiparabile a ciò che la legge definisce come mafia. Lo vedremo presto”.

     

    Allora, se non è mafia, chiedo a Salvatore Lupo cos’è il gruppo di Carminati e la sua associazione criminale con Salvatore Buzzi e le cooperative sociali. E lui risponde così: “La storia di Roma ha evidentemente qualche affinità con il fenomeno mafioso. Ma a me ricorda più altri generi di organizzazioni a delinquere.

     

    SALVATORE BUZZI SALVATORE BUZZI

    Nel 1800, a New York, c’era Tammany Hall, per esempio. Era una organizzazione elettorale del Partito democratico, e come tutti sapevano proteggeva però elementi criminali. Un’organizzazione che corrompeva, intimidiva con l’uso delle maniere forti, esercitava un certo controllo anche sulla politica e l’amministrazione pubblica. Eppure neanche quella di Tammany Hall era mafia.

     

    Nessuno lo ha mai sostenuto. Difatti oggi siamo tutti un po’ spiazzati dall’applicazione del modello mafioso a tutt’altre fattispecie criminali come succede adesso per questa faccenda della banda romana”. E qui il professore acquista un accento entomologico. “A me ha colpito particolarmente quella frase sul ‘mondo di sopra, il mondo di sotto e il mondo di mezzo’. Gli americani usano l’espressione ‘underworld’ per descrivere la criminalità”, dice.

     

    “Ecco, quello di Carminati, in quell’intercettazione, non è un linguaggio propriamente mafioso. Ma forse è un codice da ‘mafizzatore’, se posso dire così. Cioè il suo è quasi un linguaggio da creatore di mafia. E’ come se Carminati stesse teorizzando, e lentamente costruendo, un sistema, una start-up mafiosa, perché la sua banda non aveva ancora quella potenza.

     

    SALVATORE BUZZI SALVATORE BUZZI

    E insomma come se lui fosse impegnato a costruire un sistema che pure si avvicina, per analogia e allitterazioni, al sistema mafioso pur non essendolo. Dunque io posso dire che quella banda certamente non è un’organizzazione mafiosa, ma non possono escludere che quel sistema, con quelle caratteristiche, se lasciato lì a fermentare e proliferare, non si sarebbe anche potuto trasformare persino tecnicamente in mafia”, e di conseguenza aggredire tutto quel mondo cospicuo di appalti, opere pubbliche, edilizia e urbanistica, insomma quei grandi affari tipicamente mafiosi cui Carminati & soci non si sono mai nemmeno accostati. Twitter @SalvatoreMerlo

     

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