Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia
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La Roma si sbafa quella tenera nullità che è il Carpi. La Juventus va sotto anche a Napoli e il decotto Max resta con la canonica manona tipo edera sul mento a simulare un pensiero e forse anche una malinconia che, da lì a breve, diventerà stizza e bile. Olimpico a Roma quasi più vuoto della testa di quelli che lo vuotano. Tifosi? De che? Hanno messo la chiesa alias la Sud al centro del villaggio. Imperdonabili. Non sanno quello che fanno. Tifano se stessi. E la Roma? Un accessorio.
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Le due cose più belle di Roma-Carpi, subito prima dell’inizio e subito dopo la fine. L’ispirato gesto che avverte Rabdoman: sarà oggi grande Roma. Quando quel tenerone mascherato da finto ruvidone di Walter Sabatini carezza come fosse una figlia il nero tribolato e assurdamente fischiato dai suoi tifosi, Gervais, il funambolo caduto dalla fune, e gli sussurra qualcosa. Le parole di Morgan De Santis a fine partita, pure lui linciatissimo alla lettura della formazione. “Questa città non conosce l’equilibrio, per questo vincere qui è rara impresa”. Parole sacrosante.
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Tra i due exploit, quelli altrettanto sacri e santi di due musicalissimi ballerini, Pjanic e Salah. Il Bosniaco e l’Egizio spiumano il nemico. E un Gervinho tornato lui, grazie anche a quella carezza taumaturgica, un gazzellone inafferrabile, che solo per uno stupido, ignobile pelo alias palo non marca il secondo gol dell’anno dopo quello di Florenzi, e un Digne martellante e morbido insieme, un Manolas solo martellante che, da quel virilone che è, non consente a se stesso di tenere vivo il debito di Genova.
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Si diceva dell’Allegrone. Cambia e sbaglia l’ennesima formazione. Hernanes centrale di regia è una bestemmia, quasi quanto quel Pogba tenuto e punito in gabbia a volteggiare sull’out sinistro e quel Cuadrado, il più vivo, in panchina. Macinare boiate da turn over è l’irresistibile tentazione di dimostrare di esistere per molti inesistenti allenatori. Ha giocato tanto Cuadrado? E tu lo togli alla squadra proprio nella partita più importante di questo inizio stagione?
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A sei punti dalla Roma e a dieci, ma stasera potrebbero essere tredici, dall’Inter, dopo nemmeno un sesto di campionato. Incomprensibile, almeno quanto la passione per Padoin, uno fuori ruolo in qualsiasi ruolo. Il fatto è questo. La Juventus era, al cinquanta per cento del suo power, Pirlo, Tevez e Vidal. Gli restano Buffon, Chiellini e Bonucci, con addosso, però, l’acciacco di aver vinto troppo e di non credere di poter vincere ancora.
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E’ la sorte milionaria di quei pupazzi da tre palle e un soldo che sono gli allenatori. Subissato da infondati elogi, adesso gli tocca subire un altrettanto iniquo funerale. “Ma vi farò rimangiare tutto, come sempre”, ci fa sapere lui acidone e pieno di stizza a fine partita, Allegri. Che ricordavamo a Milano timido e imbranato e ritroviamo ora così arrogante e superbo.
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La Juve ha questo di magico e grandioso, ti trasforma in poco tempo. Ti prende che sei un citrullo qualunque e ti restituisce doppio, triplo, come un anno di palestra e di anabolizzanti. E’ come lo schiaffo della cresima. Quel rustico di Sarri, invece, se ne resta in tuta a fare il suo mestiere senza per questo considerarsi una divinità. Che quella lui ce l’ha in campo e sta dalla sua parte. Si chiama Gonzalo. Alquanto inquartatello, a dire il vero, ma piedi che cantano e fanno male.