Bruno Ventavoli per “La Stampa – TuttoLibri”
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Che cos'è l'ansia da felicità?
malika ayane
«Un vago e potente senso di colpa verso qualsiasi tipo di soddisfazione. È molto radicato nella società cattolica e lo sento persino io che ho un padre musulmano e parte della famiglia ebrea. O ci dobbiamo pentire della gioia, o siamo preda dell'ansia di soddisfare canoni, di entrare in determinate caselle, di sentirci all'altezza. È quella maledizione del lieto fine con cui siamo cresciuti. Nelle favole è una regola, ma nella realtà è un bel viatico per l'infelicità».
E la felicità, invece?
«Mi pongo spesso la domanda. Sicuramente sono felice sul palco, completamente connessa con i musicisti, il pubblico. Però, indipendentemente dal contesto, la felicità è riuscire ad essere nel qui e ora».
Un principio molto zen.
«In effetti faccio yoga da due milioni di anni e meditazione zen. Mi rendo sempre più conto che la felicità è la capacità di assaporare l'istante. Cosa non facile. Ho cantato nei teatri più belli d'Italia e nei paesi più belli del mondo. Eppure spesso ero a cercare il dettaglio che potesse, non tanto rovinare l'esperienza, ma compromettere il mio stato di abbandono. Insomma anche la condizione più straordinaria può essere rovinata se non riesci a sganciarti dal senso del dovere, dal pentimento, dal rigore, dalla ossessione del perfezionismo.
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Capita talvolta?
«Due settimane fa, durante un viaggio nella Guadalupe, mi sono ritrovata seduta su una grossa roccia in mezzo a un bosco dopo un'arrampicata. Ero grande come una foglia di banano, impercettibile rispetto alla grandezza della natura, però connessa, mi sentivo parte del disegno, indipendentemente dal fatto di essere il centro o un dettaglio insignificante. Era felicità».
Ha delle paure?
«Mi terrorizzano le blatte. E poi il vuoto. Non di cadere (anche se quando mi affaccio sui baratri non sto benissimo), ho paura del vuoto esistenziale. Di non usare bene il tempo che mi è stato concesso. E questo mi spinge a fare troppo in modo molto disordinato».
Beh, il contrario dello zen…
«Esatto. Per questo mi rifugio al tempio. Purtroppo la testa è ancora ballerina, e ho la capacità di concentrazione di un moscerino».
L'amore nei suoi racconti è spesso fonte di frustrazione.
«Durante il lockdown ho scritto una canzone, che i discografici non hanno apprezzato. Diceva "l'amore è una possibilità, non l'unica". Mi chiedo che senso ha pensare solo alla monogamia.
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Abbiamo intorno la palese dimostrazione che non funziona. Le coppie scoppiano. Ci sono quelli che si separano da dio, ma ne ho conosciuti pochi. Di solito avviene il contrario. Eppure se usciamo dagli schemi tradizionali della sfera affettiva stiamo male, ci portiamo dietro strascichi di dolore immensi. Perché non dedicarsi a un sano individualismo? Alla bellezza del vivere da soli. Vuoi mettere il piacere di fare la prima, lunghissima, pipì del mattino in un bagno che non usa nessun altro?».
Gli uomini dei suoi racconti sono abbastanza disastrosi. È solo fiction o lo pensa davvero?
«In effetti ho sciorinato un bel filotto di disadattati. Scherzi a parte, credo che i maschi abbiano un problema importante in questo momento storico in cui si è sviluppata l'autonomia femminile.
Gli è stata giustamente tolta la responsabilità del patriarcato ma non gli è stata riconosciuta la possibilità di essere fragili. Non possono ancora piangere in pubblico. Vengono trattati come panda se portano i figli all'asilo. Non ti sentiresti un deficiente se ti dessero un premio perché hai cambiato un pannolino?
Frastornati dalle accelerazioni della storia gli uomini oggi si dimostrano incapaci. Naturalmente parlo di ciò che ho visto, origliato, immaginato letterariamente rispetto al mio piccolo universo personale. Scorgo numerose "vittime" nel panorama maschile».
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Non per insistere, però, nonostante le delusioni, le sue protagoniste non riescono a fare a meno degli uomini...
«Sperano di trovare qualcosa di meglio del precedente. O meglio, sperano di sapersi comportare, di saper essere una versione migliore di sé nella stessa situazione. Come il sognatore che non si arrende.
È la solita ansia da felicità che riaffiora, legata a modelli culturali ben radicati. Persone libere, esploratrici o esploratori, ci sono sempre state, ma al pranzo di Natale prevalgono sempre le stesse domande, "Non ti fidanzi?", "Quando ti laurei?" "Sei proprio sicura di divorziare per la seconda volta?".
Domandarsi se si è completi in uno stato di individualità sentimentale assoluta è ancora una cosa preziosa, per pochi. A mia figlia, invece, non frega nulla di avere relazioni. Le nuove generazioni sono affascinate da reti di contatti geograficamente sparpagliati. Si sentono liberi, indipendenti».
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Una protagonista dice che avrebbe dovuto rendersi conto che il fidanzato era un pacco perché non gli piaceva Woody Allen. Lei ne ha prese fregature?
«Mi è capitato di uscire con un uomo bellissimo. Di quelli che li vedi e capisci il concetto di perfezione. A tavola gli ho chiesto, tipo test, se preferisse (Chet) Baker o (Miles) Davies. Lui ha risposto Boris Becker tutta la vita».
Com'è andata a finire?
«Ho preso un taxi». (risata)
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