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    “LA PSICOSETTA DELLE BESTIE MI HA RUBATO L’INFANZIA” - PARLA GIULIA, OGGI MOGLIE E MADRE DI 30 ANNI, L’UNICA DONNA CHE HA AVUTO IL CORAGGIO DI DENUNCIARE IL SANTONE E I COMPLICI DI UNA SETTA DI NOVARA: “GLI ABUSI INIZIARONO QUANDO AVEVO SETTE ANNI. MI FECERO SENTIRE UNA PERSONA SPECIALE, UNICA. NELLA MIA INFANZIA E ADOLESCENZA NON HO MAI VIAGGIATO, NÉ AVUTO FIDANZATI O AMICIZIE. NON HO FATTO GITE CON LA SCUOLA, NON SONO STATA IN DISCOTECA. SPERO CHE LA GIUSTIZIA SI ADOPERI PER SMANTELLARLA”


     
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    Marco Benvenuti per “La Stampa

     

    L’incubo non è mai finito. Potrebbe sembrare una frase banale, ma racchiude l’essenza di ciò che lasciano le sette: un marchio indelebile difficilissimo da rimuovere, soprattutto a livello psicologico.

     

    la donna sopravvissuta alla setta la donna sopravvissuta alla setta

    «A un certo punto tutto gira al contrario, ci si ritrova da soli in un mondo sconosciuto dove ogni certezza viene meno, dove l’identità non esiste». Giulia è una trentenne, moglie e madre.

     

    Vive in un paesino del Basso Piemonte. È una delle decine di vittime della cosiddetta «psicosetta delle bestie», la setta del Dottore, sgominata dalla polizia di Novara nel luglio di due anni fa.

     

    Era entrata da piccola, e, dopo essere uscita a fatica, ha avuto il coraggio di denunciare – è stata l’unica a farlo - a conclusione di un sofferto percorso di terapia, nel quale le hanno dato una grossa mano la sua psicologa, il suo legale avvocato Silvia Calzolaro, e i volontari di «Mai più sole», associazione di Savigliano (Cuneo) che da anni lotta a fianco delle donne che subiscono violenza fisica e psicologica.

     

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    Giulia, come è entrata nella setta del Dottore?

    «Ne sono venuta a contatto da bambina, tramite una parente. Avevo 7 anni. All’inizio mi fu proposta come un mondo magico e incantato, in cui dicevano che avrei trovato l’armonia. Mi fecero sentire una persona speciale, unica.

     

    Ma l’illusione durò poco: gli esponenti del gruppo avevano modi disinibiti finalizzati a creare un’intimità che io non sentivo naturale. Non facevo fatica a dimostrarlo con atteggiamenti scostanti e chiusure, ma ero una bambina e non potevo far nulla, visti anche i legami parentali con alcune adepte».

     

    Quando ha conosciuto il «capo»?

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    «A 11 anni. I tre precedenti erano serviti alla preparazione di questo incontro. Lui si presentò come persona che si sarebbe preso cura di me, sostituendosi a ogni altro mio riferimento. È stato un percorso doloroso per molti aspetti, con molte cicatrici che ancora oggi mi segnano».

     

    Cosa veniva chiesto alle nuove adepte?

    «Di abbandonare ogni cosa: vita normale, amici, amori e famiglia. Avveniva un’automatica omologazione, anche grazie all’esempio di chi già c’era, e ci si vestiva in modo strano, ispirato al mondo celtico e fiabesco, creando una comfort-zone ideale.

     

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    Si dovevano usare modi composti e gentili, bisognava essere curate, belle e armoniche. Era vietato avere stati d’animo negativi, poiché avrebbero avuto conseguenze su tutti. Niente fidanzati, nessun affetto per amici e parenti. Veniva chiesta sottomissione: mentale, fisica, sentimentale e spirituale. Le adepte si educavano gradualmente, con metodi che andavano dalla semplice respirazione alle vere e proprie torture».

     

    Quali comportamenti tenevano il Dottore e i suoi collaboratori?

    «Si presentavano come persone colte, importanti, misteriose. Spesso si occupavano di lavori strettamente connessi alla setta, utili ad autosostentarsi: c’erano le erboristerie, gli shop di prodotti cosmetici, la casa editrice, e poi punti di ritrovo a Milano come la scuola di danza, lo studio di psicologhe. In tutti questi luoghi era evidente l’impronta del dottore: pareti, decorazioni, soprammobili, tutto era ispirato a fate, gnomi, simboli apotropaici. C’erano poi le collaboratrici anziane che vivevano nelle casine del parco del Ticino».

     

    Dove avvenivano le violenze?

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    «Nei luoghi in cui ci si trovava abitualmente, ultime in ordine di tempo le case di Cerano. Ma c’erano anche appartamenti a Vigevano, Rapallo, Milano. Anche le palestre spesso diventavano luoghi dove creare situazioni a sfondo sessuale, come primo passaggio per poi approdare alle casine nel bosco».

     

    Quali sono stati i momenti più difficili?

    «Ogni momento, che si trattasse di violenza fisica o un abuso di potere, oppure una manipolazione mentale o una chiara manovra per distruggere l’“io”. Non c’era momento in cui non mi sentissi controllata, sotto pressione, esaminata o giudicata, che fossi a scuola o a fare la spesa, al bar o in metropolitana.

     

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    Grazie a quelle catene fatte di sottomissione, sentimenti, sopravvivenza, lasciare la setta non era facile, anzi faceva male. Andando via avresti abbandonato quelle persone che come te avevano condiviso e sofferto, e che addirittura, senza di te, dicevano che non sarebbero sopravvissute».

     

    Quando ha capito che era ora di dire basta?

    «Quando ho iniziato a farmi domande: ho capito che non ero felice. E soprattutto quando ho visto che nella realtà il Dottore non si comportava come predicava, era tiranno e dispotico: diceva che le donne erano un’incarnazione della “Grande Madre” ma poi le picchiava; idolatrava gli animali, poi li prendeva a calci. C’era qualcosa che non mi tornava: ho capito che le sue erano bugie».

     

    Ha avuto paura dopo l’allontanamento?

    setta satanica setta satanica

    «Non pensavo di poter avere una vita normale fuori dalla setta. Appena uscita subivo ancora il peso degli avvertimenti: “Chi se ne va diventerà uno zombie”, o “Si ammalerà di un male terribile”. Ho però iniziato a documentarmi sui gruppi settari e a capire di poter rifarmi una vita».

     

    Come rivive oggi il ricordo di quell’esperienza?

    «Il passato fa parte di me e ha contribuito a rendermi ciò che sono, con le mie insicurezze e fragilità. Volevano una “guerriera della luce” e lo sono diventata, ma decidendo per me e dedicando le mie energie per portate alla luce la setta, e farla finire.

     

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    Ho intrapreso questa strada affiancata da professionisti qualificati, che mi hanno aiutata ad affrontare il passato, a riscoprire il mondo, quello vero, e a darmi il coraggio di denunciare. Ho cercato di rifarmi una vita grazie all’incontro con mio marito e i figli, nonostante fino a pochi anni fa mai avrei pensato di averne: nella setta erano abusati e visti come “piccoli mostri”, un fastidio».

     

    Cosa chiede alla giustizia?

    «Che questa setta venga riconosciuta come tale, che ci si adoperi per smantellarla, e che questa lunga e difficile impresa possa essere d’apripista per tutte le persone a rischio.

     

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    Nella mia infanzia e adolescenza non ho mai viaggiato, né avuto fidanzati o amicizie, mentre i miei coetanei giocavano, si divertivano, studiavano e crescevano. Non ho fatto gite con la scuola, non sono stata in discoteca. Cose banali, che però fanno parte della crescita. Non sta a me dire cosa meritano questi criminali, ma spero che giustizia sia fatta, in modo adeguato ed esemplare».

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