Aldo Grasso per il “Corriere della Sera”
tiziano ferro
Si piange molto guardando «Ferro», il documentario che Prime Video ha dedicato a uno degli interpreti italiani più amati e popolari.
O si sghignazza, se non si ama troppo il cantante e la sua vocazione a fare di tutto un melodramma. E non potrebbe essere altrimenti, perché il film è costruito tutto a immagine e somiglianza di Tiziano, dall' infanzia difficile (obesità, bullismo) fino a tradurre in immagine le modalità terapeutiche dei gruppi di alcolisti anonimi, cui ha partecipato.
La sua carriera, dai primi incerti passi mossi sui palchi amatoriali di Latina ai trionfi internazionali, è riletta alla luce di un' opposizione «lacerante»: la ribalta dei successi e il retroscena segnato da sofferenze, cadute, fragilità estreme che lo hanno a lungo tormentato, lasciando cicatrici interiori che tutt' oggi non paiono del tutto sanate.
L' obiettivo di «Ferro» non è la consacrazione di un artista benedetto da una voce che nel tempo ha guadagnato (se possibile) ancora più profondità e colore, ma una riflessione quasi pedagogica sulle sofferenze che derivano dal doversi conformare a logori standard sociali per essere accettati.
tiziano ferro
Non per niente, una delle sequenze più riuscite del film è la visita di Tiziano a una classe di liceali americani che studiano l' italiano attraverso le sue canzoni. Il viaggio simbolico dalla provincia laziale a Los Angeles non è stato breve e Tiziano Ferro è uno che sa farsi voler bene, tanto che i fan gli perdonano tutto e si rallegrano di quella studiata e istrionica teatralità che mette nell' autobiografia.
«Ferro» ha il sapore della rivincita: non credevate in me e invece sono diventato una popstar, sono anche conosciuto all' estero e adesso posso permettermi di costruirmi questo monumento in vita. Come tutti monumenti è a rischio trash, l' emulazione inappagata di un modello alto.
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