Alessandro Dell'Orto per “Libero quotidiano”
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Fabrice Pascal Quagliotti, mago delle tastiere, 62 anni, ha un passato di grande successo e un presente in rampa di lancio. Già, proprio come se fosse un astronauta pronto a decollare nello spazio: lui, leader e unico superstite della formazione originale dei Rockets (il gruppo space-rock francese, ricordate? Quei tizi che suonavano vestiti da alieni che hanno fatto il boom tra gli Anni '70 e '80), sta esordendo con il primo lavoro solista della carriera: Parallel Worlds uscito lo scorso 23 ottobre.
Fabrice, come mai questa sorpresa?
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«Avevo in mente di fare un album del genere da quattro o cinque anni. Il mio discografico ha sentito qualche provino e mi ha suggerito di preparare un lavoro solo strumentale. Così, quando è arrivato lo scorso lockdown, si è presentata l'occasione giusta per fare una full immersion di 15 ore al giorno su pianoforte e tastiera...».
Dove hai trascorso quei due mesi?
«Immerso nel verde delle colline di Como, in collina, dove vivo dal 1984. Ovviamente sono finito lì per amore».
Parallel Words è una sorta di album cinematografico: in 14 brani strumentali lei immagina altrettante colonne sonore per film che non esistono.
«Fare musica per il cinema è il mio sogno. Ecco perché Parallael Words è dedicato a Ennio Morricone, che considero il più grande compositore del XX secolo».
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Perché questo titolo?
«Da bambino ero amicissimo di Federick Rousseau (famoso strumentista new age francese n.d.r.), andavamo a scuola insieme ed eravamo culo e camicia. Poi ci siamo persi di vista e quando, dopo 12 anni, ci siamo reincontrati per caso in un negozio di strumenti musicali a Parigi, ci siamo riconosciuti anche se eravamo completamente cambiati: lui con la barba e io rasato! Lui era il tastierista di Jean-Michel Jarre ed io il tastierista dei Rockets. Così, quando l'ho chiamato per collaborare a questo progetto, ci siamo detti che il titolo dell'album non poteva essere che questo: mondi paralleli. I nostri».
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Fabrice, nei suoi brani ci sono dediche a David Bowie e Gagarin.
«Sono sempre stato un fan sfegatato di Bowie, il più grande trasformista del pop. Volevo fare qualcosa che mi ricordasse il personaggio di Major Tom e Space Oddity. Da ex Rockets, invece, sono sempre stato affascinato dallo spazio e dagli Ufo. Un tema che lega anche il brano dedicato a Yuri Gagarin: avrei voluto essere io il primo uomo nello spazio».
Scusi, scusi: lei crede negli Ufo?
«Assolutamente sì: come si fa a pensare di essere gli unici essere viventi dell'Universo? Il mio sogno è essere rapito da extraterrestri ed essere portato lassù nel loro mondo».
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Torniamo al suo album. Domanda secca e anche un po' stronza: perché uno dovrebbe acquistare questo suo primo lavoro solitario?
«Perché chi lo ascolta se ne innamora per forza. Sono 14 sfumature di me stesso. E ho già in testa anche come portarlo in scena: luci, neon, funamboli come in un circo e 14 outfit diversi che sto facendo preparare dalla fashion designer Cinzia Diddi».
Il più stravagante?
«Un abito con tessuto fatto di luci».
Fabrice, e i Rockets?
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«Io mi considero sempre uno di loro, ma ormai ci esibiamo solo dal vivo. Io non dimentico il passato».
Torniamoci insieme al passato. Lei nasce a Parigi il 12 febbraio 1958. Con un cognome italiano
«I bi bis nonni sono della Val d'Aosta. A 13 anni studio organo classico al prestigioso Conservatorio di Parigi e poi prendo lezioni di pianoforte dal maestro russo Yuri Postar. A 16 anni fondo una band progressive rock chiamata "Sexagone" e a 17 formo i "Xerus". Nel frattempo mi contatta Christian Le Bartz che sta cercando un nuovo tastierista per i Rockets».
Ed è il via al grande boom con lo "Spice Rock", il rock spaziale con tastiere sintetizzatori. E un look tutto particolare: l'immagine futurista di alieni dalla pelle color argento. Complicato truccarsi?
«Cinque minuti per mettersi la crema teatrale grigia, ma mezzora per toglierla».
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Eravate pelati, cosa non ancora di moda a quel tempo: parrucca?
«Nooo, eravamo rasati realmente...».
Perché quel sorriso?
«Questo look ci ha creato qualche problema, soprattutto in Italia».
Cioè?
«Concerto a Torino nel '79: si apre il sipario e nelle prime file del teatro ci sono solo persone pelate, in piedi e con il braccio destro teso in avanti».
Non dirà che…
«Sì, erano convinti che fossimo un gruppo fascista che omaggiava il Duce! Il manager ci guarda e dice: "Per carità, non incitateli"».
Ma eravate di destra?
«No, i Rockets erano apolitici. Ci rasavamo come segno di purezza immaginandoci nello spazio a contatto con strani virus».
E pure lei, Fabrice, è apolitico?
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«Beh, io sicuramente non sono di sinistra. Diciamo centrodestra».
Ultime domande veloci. 1) Ha guadagnato molto con i Rockets?
«Abbastanza, ma ho anche speso tanto in bella vita e alberghi di lusso. Non in donne: per fortuna quelle non mi sono mai costate».
2) Parliamone, di donne. Tante?
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«Quando rientravamo in hotel c'era la fila e dovevamo solo scegliere: tu sì, tu no. Bei tempi, rifarei tutto».
3) Musica a certi livelli, soprattutto in quegli anni, spesso significava droga.
«L'abbiamo toccata con mano per un anno o due, abbiamo provato di tutto. Non per sballarci, ma per reggere certi ritmi tra viaggi, registrazioni, tv e concerti. Ci esibivamo anche 150 volte l'anno ed eravamo sempre in giro, non si dormiva mai».
Ultimissima. Dovesse spiegare la sua musica a un bambino cosa gli direbbe?
«Gliela farei sentire: la musica non si spiega, la si ascolta».
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