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    LAVORARE MENO, LAVORARE MEGLIO – TAGLIARE LE ORE DI LAVORO, LASCIANDO I SALARI INVARIATI, NON FA DIMINUIRE LA PRODUTTIVITÀ. ANZI, LE PERFORMANCE MIGLIORANO! LO DIMOSTRANO GLI ESPERIMENTI CONDOTTI IN ISLANDA SU ALCUNI IMPIEGATI PUBBLICI: CON UNA MIGLIORE QUALITÀ DELLA VITA E PIÙ TEMPO DA DEDICARE A SE STESSI, I DIPENDENTI SONO PIÙ SODDISFATTI E QUINDI RENDONO DI PIÙ (CHISSÀ SE PRIMA O POI LO CAPIRANNO ANCHE GLI IMPRENDITORI ITALIANI)


     
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    Michele Pignatelli per www.ilsole24ore.com

     

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    Settimana corta, nessun calo di produttività, salari invariati. A leggerlo così l’esperimento islandese, reso noto in questo inizio estate, sembra il sogno di ogni lavoratore, la risposta a un dibattito sempre più diffuso in Europa, dalla nordica Finlandia alla latina Spagna: è possibile ridurre l’orario di lavoro senza danni salariali per i dipendenti, aggravi per il datore di lavoro e ripercussioni sui prodotti o i servizi erogati?

     

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    In Islanda tra il 2015 e il 2019 sono stati condotti due successivi esperimenti di riduzione da 40 a 35-36 ore della settimana di lavoro senza tagliare i salari, coinvolgendo complessivamente circa 2.500 lavoratori (oltre l’1% della popolazione attiva) impiegati in diversi ambiti del settore pubblico, dagli uffici alle scuole materne, dai servizi sociali agli ospedali.

     

    Il background: troppe ore e poca produttività

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    Il punto di partenza era un gap innegabile per il piccolo Paese nordico che, pur condividendo con i suoi vicini alti livelli di reddito (sesto come reddito pro capite tra i Paesi Ocse, con circa 47mila dollari Usa nel 2017), bassa disoccupazione (3,4%) e un generoso welfare, mostrava un basso livello di produttività (55,4 dollari per ora lavorata, 14esimo tra i Paesi Ocse) e una settimana lavorativa nei fatti troppo pesante: 44,4 ore effettive (dati 2018) per gli impieghi a tempo pieno, terzo posto tra gli Stati Ue.

     

    Produttività a parte, l’effetto collaterale, ben descritto da uno studio del 2005, erano un disagio e un’insoddisfazione diffusi, con un lavoratore su quattro che si diceva incapace di far fronte alle incombenze domestiche una volta terminato il lavoro, lamentando una scarsa qualità della vita.

     

    I risultati dell’esperimento

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    I risultati dei trial, resi noti dal think tank britannico Autonomy e dall’islandese Associazione per la democrazia sostenibile, hanno rivelato un «sostanziale miglioramento» della qualità della vita dei lavoratori, dallo stress percepito alla salute al work-life balance, il bilanciamento tra lavoro e vita privata. E fin qui nulla di sorprendente (se non, forse, il fatto che non si è verificato un incremento eccessivo delle ore di straordinario). Il dato più interessante è però il fatto che produttività e fornitura di servizi siano risultati invariati se non migliorati un po’ in tutti i settori monitorati.

     

    Le ricadute sui contratti

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    In seguito al successo dei due esperimenti, sindacati e organizzazioni datoriali islandesi hanno siglato accordi di riduzione permanente dell’orario di lavoro; come conseguenza, l’86% dell’intera popolazione attiva ha oggi settimane lavorative più corte o ha guadagnato il diritto a negoziarle.

     

    «Questo studio - ha dichiarato Will Stronge, direttore delle ricerche di Autonomy - mostra che il più grande esperimento al mondo sulla settimana lavorativa corta nel settore pubblico è stato un successo travolgente e che il settore pubblico è pronto a fare da pioniere in questo ambito e anche altri governi possono trarne insegnamento».

     

    Un bilancio: ambito di applicazione e costi

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    In sede di bilancio, l’ambito d’applicazione non è irrilevante. Gli esperimenti islandesi sono infatti partiti dal settore pubblico, la municipalità di Reykjavik e uffici governativi, sebbene abbiano poi prodotto a cascata effetti anche nel settore privato, dove però per alcune categorie - lavoro manuale e industria - gli accordi in materia vengono demandati alla contrattazione aziendale. Un po’ come avvenuto in passato con Volkswagen in Germania e, recentemente, con la multinazionale Unilever e il suo staff neozelandese. E come consigliano alcuni analisti.

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    L’altro aspetto da considerare è il costo delle misure. Sebbene in alcuni casi la riduzione dell’orario di lavoro non abbia avuto un impatto economico, per effetto dell’incremento di produttività, ci sono posti di lavoro (soprattutto in ambito sanitario) dove questa equazione si è rivelata impossibile ed è stato necessario assumere. I costi per il governo islandese sono stimati in 4,2 miliardi di corone islandesi all’anno (28 milioni e mezzo di euro circa): si tratta appena dello 0,5% del budget governativo, ma andrebbe verificato su economie più grandi.

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