Malcom Pagani per ‘Il Messaggero’
OVOSODO
Salina, spiaggia della Rinella, tramonto, voci di bambini e quella più adulta di Paolo Virzì: «Ovosodo? Non mi ricordo, andando verso una certa età i contorni sfumano e ti dimentichi le cose». Vent'anni fa, ieri. Un film perfetto, nato con poco, omaggiato con il Gran Premio speciale della Giuria a Venezia e pieno della Livorno ruvida osservata dal regista, del vento dell'Ardenza e della tenerezza poetica dei versi di Piero Ciampi: «Un pianto che si scioglie/ la statua nella piazza/ la vita che si sceglie/è il sogno di una pazza».
MATTI VERI E PRESUNTI
OVOSODO GABRIELLINI PANDOLFI
Di matti che sciamavano contenti o disperati senza un orizzonte, di tinelli marròn, malinconie, scopate frettolose, fratelli problematici, birre calde, genitori ergastolani, professoresse illuminate (Nicoletta Braschi) destinate a spegnersi per destino drammaturgico, aspettative tradite, eredi privilegiati impegnati a trottare da maudit sotto mentite spoglie, veri figli di un dio minore e zingari felici, in Ovosodo, quartiere dai palazzoni ocra e i panni stesi al sole del luogo natale del regista, ce n'erano tanti. «Girarlo fu una maniera- dice oggi Virzì che lo scrisse con Francesco Bruni- per intraprendere un percorso di pacificazione con la città da cui ero scappato a vent'anni».
LIVORNO VIRZI OVOSODO SPIAGGE DA FILM
Piero Mansani, il protagonista (Edoardo Gabriellini) racconta oggi Virzì, era plasmato su suo fratello Carlo- musicista di talento nella seconda parte dell'esistenza- che la tuta blu al tempo la metteva davvero e a cui Virzì voleva regalare una prospettiva romantica e forse favolistica: «Un'illusione giocosa che lo sollevasse dal quotidiano e che gli desse la forza di continuare a interpretare le sue canzoni e quelle di Bruce Springsteen con i suoi compagni di cartellino da timbrare».
In Ovosodo pulsava «lo spirito di una Livorno elegiaca, addolorata dalla mancata sublimazione del desiderio» quasi un manifesto esistenziale per un avamposto- rammenta Virzì- che nel 1997, non viveva la più fortunata tra le sue tante stagioni in perpetua altalena. «All'epoca per essere sinceri, la decadenza era totale e di Livorno si erano dimenticati tutti. La città non veniva nominata neanche per sbaglio, cancellata dalle previsioni del tempo e persino dalle estrazioni del lotto».
Quando la banda di Virzì arrivò in Laguna e le peripezie di Piero Mansani e il suo romanzo di formazione declamato con voce fuori campo dall'accento marcato: «Dalle parti mie per farti rispettare dovevi essere sempre pronto a menare le mani, c'erano certi personaggi assolutamente irragionevoli, per esempio Furio Brondi che staccava la testa alle lucertole con un morso, poi annusava la benzina e tutto su di giri si divertiva a torturare noi bimbetti» trionfò al Festival di Venezia, al telegiornale si ricordarono di Livorno e persino il sentimento di Virzì cambiò di segno.
OVOSODO
Durante le riprese: «Con senso di colpa crescente» aveva dormito in albergo: «Come un turista che sapeva di raccontare una grande bugia su Livorno, meno allegra di quanto non la stessi ritraendo, ma che al tempo stesso rimaneva ancorato alla menzogna un po' per non rivelare il sentimento in verità più aspro che nutrivo per lei , un po' per timore di sciupare l'illusione romantica di trasformare le angustie in allegria».
Poi: «Vincemmo il secondo premio al Festival e a Livorno ci accolsero come se avessimo vinto la Champions League». Pace fatta e secondo capitolo, dieci anni più tardi, con La prima cosa bella. A Livorno, quel lampo del 1997, non se lo sono più scordati. Non avrebbe potuto essere altrimenti, ma per congenita megalomania che solo i vinti per definizione posseggono o magari perché i doni vanno colti e impreziositi celebrandoli, han fatto anche di più.
SEI GIORNI DI FESTA
NICOLETTA BRASCHI OVOSODO
Inventando una commemorazione dal nulla (sei giorni di festa, dal 18 al 23 luglio con mostre, concerti, incontri, appuntamenti e proiezioni in Fortezza nuova e in piazza Barriera Garibaldi, centro pulsante di Ovosodo) perché come sostiene Salvatore Toto Barbato, che oggi è proprietario di un rock club (il Cage) tra i più importanti d'Europa e che ieri, all'epoca del film, consegnava pacchi per il Dhl: «Ovosodo, a me e ai miei compagni d'avventura, cambiò la vita. Mi diede il coraggio di licenziarmi e di intraprenderne una del tutto nuova e diversa». Nel film, Barbato era Mirco.
Un ragazzo cresciuto che- come tutti prima e dopo di lui- era passato attraverso il lavacro delle prepotenze un po' ribalde e in fondo inoffensive degli adulti di frontiera. I bad boys, in periferia, tra i palazzoni, tenevano il coltello in mano, lo facevano volteggiare e con lo sguardo perso e la minaccia affilata angariavano i più piccoli facendo scivolare domande retoriche: «Come son le vostre mamme?»
michela ramazzotti paolo virzi
Ottenevano un'abdicazione rapida e convinta, una risposta netta: «Troie, troie» e il tran-tran ricominciava nei cortili, come se nulla fosse accaduto. A Livorno, il linguaggio era spesso crudo e lo scherno feroce: «Un congiuntivo in più, un dubbio esistenziale di troppo e venivi bollato per sempre come finocchio», ma si stava tutti insieme, il ricco e il povero, in faccia al mare. In un eterno Neorealismo. In un'atmosfera anni 50 da gabbione, ginocchia rosse, motorini scarburati e pizza di ceci. Dall'estate all'inverno. Nei secoli dei secoli.