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    "IL SUPPLI'? ARRIVA DA NAPOLI, QUANDO LE TRUPPE FRANCESI ALLA FINE DEL '700 OCCUPARONO ROMA. SI APRIVA LA PALLA DI RISO E DENTRO C'ERA LA CARNE, CHE ERA LA 'SURPRISE', LA SORPRESA, DA CUI DERIVA LA PAROLA SUPPLI" - LO CHEF ARCANGELO DANDINI RACCONTA LA STORIA DELLA CUCINA ROMANA: "IL ROMANO INIZIA A ESSERE 'PASTASCIUTTARO' DOPO GLI ANNI CINQUANTA, PRIMA SOLO PASTA FRESCA PERCHE' IL CIBO ERA SOPRAVVIVENZA, DOPO DIVENTA EDONISMO"


     
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    Gemma Gaetani per “La Verità”

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    Lo chef Arcangelo Dandini ha portato a vera magnificenza il supplì nella capitale. Nei suoi locali (chiamati Supplizio) la fila conduce ad assaggiare il miglior street food di Roma, che lui ama chiamare, all'italiana, cibo di strada. Ha cominciato con Aimo e Nadia, quindi ha aperto il Simposio di piazza Cavour, poi il ristorante l'Arcangelo, Chorus in via della Conciliazione...

     

    Appassionata, fiera e studiosa anima della cucina di Roma, l'apprezzatissimo chef sta sbarcando ora alla conquista di Londra con il ristorante Garum. Nel frattempo, si è dedicato anche alla scrittura. Nel 2011 ha pubblicato per Aliberti Memoria a mozzichi. Le ricette della cucina romana secondo un grande chef; nel 2014 Animelle.

     

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    Viaggio di un oste con Iniziative Italia edizione. La ricetta della sua carbonara dei pascoli estivi si trova invece nel libro A tavola con i grandi cuochi. La nostra cucina a casa tua (Slow Food Editore).

     

    Lo incontriamo a un tavolo del suo Supplizio di via dei Banchi Vecchi. «Quando sono qui», dice, «preferisco chiamarmi oste o patron. Ho sempre concepito Supplizio come un'osteria 2.0, dove servire il mio cibo di strada, cibo italiano».

     

    Il supplì è il re del cibo di strada romano, insieme con la pizza al taglio.

    «Il supplì è uno dei cibi determinanti della mia vita. Supplizio nasce da una mia quasi ossessione alimentare. Ad Anzio, dove passavo le vacanze da bambino, mia madre ci portava in una rosticceria una sera sì e una no e ci faceva mangiare un solo supplì a testa, anche se ne avrei mangiati di più. Appartengo alla quinta generazione di una famiglia di ristoratori, ho replicato la maniera di fare i supplì di mia nonna.

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    Lei faceva un risotto con le rigaglie di pollo e la salsiccia di maiale, poi grattugiava a mano pane di 2-3 giorni e poi friggeva. C'è una memoria del cibo che poi porta a rielaborare. È un lavoro che ho sempre fatto nella mia cucina, non solo con i supplì: ricercare i ricordi della mia memoria per portarli sulla tavola di tutti».

     

    Lei è un filologo della cucina romana e non solo. Ci racconta la storia del supplì?

    «Partiamo dall'etimo. Siamo riusciti a trovare documenti che attestano l'arrivo dell'arancina o palla 'e riso dal Sud, presumibilmente da Napoli, quando le truppe francesi alla fine del Settecento occuparono Roma.

     

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    Si apriva questa palla di riso e dentro c'era la carne, fumante, era la surprise. Da surprise arriviamo a supplì, infatti Ada Boni nel Talismano della felicità parla di "la supplì", al femminile come è surprise in francese. E la fa come l'arancina, con il riso bollito a cui unisce il condimento che può essere anche sugo di garofolato. Senza mozzarella né panatura, solo una leggera infarinatura. A Roma ancora un paio di posti fanno i supplì in quel modo».

     

    In seguito l'emigrazione della surprise di carne nel riso e l'inserimento di un'altra surprise, la mozzarella

    «Che in principio è la provatura di bufala. A Roma c'era anche il crostino di provatura e acciughe, la provatura era più economica della mozzarella».

     

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    La sua ricetta è quella che si stabilizza a Roma verso il 1940-1950.

    «Per la precisione nel 1953. Livio Jannattoni, esegeta dei cuochi che facevano la cucina romana, raccontava Giaquinto, Gigi Fazi, la Boni, parla del primo supplì risottato di Gigi Fazi. Dal riso bollito unito ai condimenti si passa a un risotto al pomodoro con le rigaglie di pollo e parmigiano. Nel mio supplì classico io metto anche basilico e semi di finocchio».

     

    Il finocchietto è un sapore molto romano.

    «L'identità romana non la danno il riso o il pomodoro, ma le rigaglie o il finocchietto...».

     

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    Lei usa il Carnaroli, un riso da risotto. Possiamo dire che il supplì sia il risotto di Roma?

    «Usavo il Vialone nano, poi mi sono appassionato al Carnaroli riso buono di La Mondina. Il Carnaroli è un seme italiano degli anni Quaranta, un innesto del Vialone che esiste dal Rinascimento con un riso sempre italiano. Ha eleganza, completezza, equilibrio anche nel chicco, quando si addenta per i risotti è perfetto, come il Vialone.

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    A cui sono rimasto sempre molto legato: feci il primo risotto a 18 anni con il Vialone nano di Gabriele Ferron dell'omonima riseria in Veneto che ha una pila per riso del 1605. Con il rondeau Il risotto si fa con il rondeau, largo e basso per non creare vapore acqueo. L'acqua fa male al riso».

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    L'identità di un piatto sta negli ingredienti?

    «Sostengo da più di 30 anni che la cucina italiana non esiste, nel senso che è un'idea, un valore. Esiste il cibo italiano, però. Un mio allievo indiano o giapponese può fare benissimo cucina italiana perché gli ho insegnato le tecniche su quel prodotto. Quel prodotto, per esempio il guanciale, può essere marchigiano, veneto, della provincia di Piacenza, ma deve avere quella connotazione di gusto».

     

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    Ha citato il guanciale. Nella sua carbonara dei pascoli estivi non c'è.

    «Mi piace molto sviluppare un gusto mio e poi trasmetterlo. L'ho fatto con i supplì, l'amatriciana, la carbonara, dalla quale, ormai sono 20 anni, ho tolto albume e pepe, l'ho sintetizzata. In quella dei pascoli estivi ho tolto anche il guanciale per ricercare la somma di ingredienti che poi porta alla carbonara. All'apice della piramide della pasta romana c'è la gricia, cacio e unto, pecorino e guanciale. Aggiungi l'uovo e fai la carbonara, aggiungi il pomodoro e fai l'amatriciana, togli il guanciale, metti il pepe e fai la cacio e pepe».

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    Alici, molto romane anch' esse. Nel fritto di Supplizio c'è un altro grande classico romano, la mozzarella in carrozza con i filetti di alici, e le polpette di alici con il garum.

    «Con il "mio" garum. Emilio Ferracci, figlio di Anna Dente, gastronomo e archeologo, ha concluso che oggi dell'antico garum rimane la salsa cacciatora, che noi usiamo per pollo, abbacchio. Il garum non si può fare più come una volta, pesce che colava al sole tre mesi. Il mio simbolo di Garum a Londra sono le vasche del garum. Lo faccio da 20 anni. Le alici, con guanciale e pecorino, sono la bandiera della territorialità, la cucina ebraica è la più antica al mondo. La cucina romana non è solo quella dell'Ottocento».

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    Definisca allora la cucina romana per chi romano non è.

    «Innovativa, futurista, di tradizione. Prima c'è la cucina di Apicio. Poi la cucina degli ebrei. Poi la cucina rinascimentale di Bartolomeo Scappi, cuoco di sei papi. Io a L'Arcangelo faccio il raviolo di cipollata, con la cipollata che si faceva a Roma. Si mangiava anche il caviale, si pescavano gli storioni sotto l'Isola Tiberina, quando non c'erano gli argini».

     

    Della cucina degli antichi Romani abbiamo certamente perso il gusto agrodolce.

    «No: pensi a burro e alici. La pasta o il crostino. Sulla mozzarella in carrozza metto un pesto di acciuga, burro e prezzemolo, come faceva mia nonna: la parte vegetale dà ancora più forza alle alici».

     

    Il menu perfetto per conoscere la cucina romana vera?

    «Antipasto, un supplì».

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    Primo?

    «Una zuppa, una minestra. Il romano inizia a essere "pastasciuttaro" dopo gli anni Cinquanta, prima solo pasta fresca perché il cibo era nutrimento e sopravvivenza, dopo diventa edonismo. Minestra di pasta e broccoli in brodo di arzilla oppure pasta e broccoli: pecorino, acciuga, pasta spezzata di risulta, io uso il Mischiato potente del Pastificio dei campi di Gragnano. Poi, un involtino in umido».

     

    Contorno?

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    «A Roma non è mai esistito, carciofi o puntarelle si mangiano come pietanze».

     

    Il carciofo c'è alla giudìa e alla romana.

    «Con tutto il rispetto per la giudìa, io tifo la romana. A Pasquetta ho mangiato il carciofo alla matticella da un mio amico in campagna, improponibile in contesto urbano, perché la matticella sono legni della vigna presi a febbraio e lasciati essiccare, ci si fa una brace e si cuoce lentamente per ore».

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    Dolce?

    «La mia ricotta di Rocca Priora, con visciole, succo di visciole, scaglie di cioccolato tra 68 e 72% e come crunchy crumble di nocciole di Viterbo, non un chilometro zero ma comunque territorio».

     

    Infine il segreto romano: caffè corretto sambuca.

    «Vi voglio raccontare un mio piatto: il senso di una mareggiata ad Anzio. Nacque dal ricordo di una domenica d'inverno con mio padre, grande cuoco che non c'è più dal 1998. Nel bar la radio dava la partita, la vetrata guardava sulla mareggiata, dentro caldo, tepore, vetri mezzi appannati, odore di caffè e sambuca.

     

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    Fettuccelle di semola, alghe di mare, acqua di ostrica, ostrica, ricotta e sambuca, tutti gli elementi di quel momento. Faccio la base con la ricotta, che rievoca la schiuma delle onde, l'acqua di ostrica e l'alga marina, ci salto la pasta e poi lontano dal fuoco metto sambuca e ostrica. È un piatto che adoro e ogni tanto lo ripropongo. Grazie per questo ricordo»

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