Maria Giovanna Maglie per Dagospia
«Perché pubblicare qualcosa di stimolante per i nostri lettori o scrivere qualcosa di audace, quando possiamo assicurarci il risultato pubblicando il nostro 4000° articolo in cui sosteniamo che Donald Trump è un pericolo per il paese e il mondo? Così l’autocensura è diventata la norma».
Bari Weiss e Andrew Sullivan sono due giornalisti noti negli Stati Uniti ma non è detto che loro nome debba dirvi qualcosa. Però ricordatevi le loro dimissioni nel 2020,estate del virus cinese, perché segnano il momento più basso per la libertà di espressione, e la cosa più grave è che uno dei giornali finiti nella fogna del politically correct e' il New York Times che si pregiava di pubblicare "all the news that's fit to print".
bari weiss
Non era stato toccato il fondo con le dimissioni di James Bennet, responsabile delle pagine op-ed, massacrato per aver pubblicato un articolo del senatore repubblicano Tom Cotton che chiedeva l’impiego dell’esercito contro i manifestanti per le strade degli Stati Uniti.
Figuratevi se col clima da guerra civile stoltamente aizzato da esponenti del Partito Democratico, che pensano così di vincere le elezioni spaventando la gente, dividendo le fazioni e le razze, tenendo alta la paura e chiusi i negozi e le attività economiche, che sarebbero in piena ripresa nonostante il virus cinese non sia stato ancora debellato, figuratevi se possono trovare udienza parole come “l’importanza di comprendere gli altri americani, la necessità di resistere al tribalismo e la centralità del libero scambio di idee per una società democratica”.
La cancel culture, cultura della cancellazione del passato, delle differenze, delle statue, dei monumenti, della storia, è in piena ebollizione. Parti' col me-too, tutte vittime sempre anche quelle che il presunto carnefice lo avevano adeguatamente spolpato, ora continua con antifa e Black lives matter, tutti colpevoli, tutto sbagliato, e con la storia si cancella la cultura.
Chissà se quel gruppone di intellettuali scrittori giornalisti, tutti di matrice progressista, che hanno finalmente ritenuto di avvertire il pericolo della dittatura politically correct che loro stessi hanno contribuito ad affermare, e firmato su Harper's Magazine un documento di allarme pubblico, pensavano di ottenere risultati immediati e di lanciare il nuovo Verbo tollerante. Certo non sembra, non nella libertà di espressione e professione di Andrew Sullivan e di Bari Weiss.
andrew sullivan col compagno alla casa bianca
Li avevano assunti tutti e due all'indomani della batosta elettorale del 2016, un po' per dar mostra di trasversalità, un po' per provare a intercettare quel pubblico silenzioso ma molto attivo al momento del voto che li aveva evidentemente traditi, o che loro molto più banalmente non erano stati in grado di ascoltare.
Così il veterano corsaro del giornalismo cartaceo e on-line, Andrew Sullivan, uno che negli anni '90 aveva preso un manifesto progressista come the New Republic e lo aveva trasformato in un giornale addirittura conservatore in politica estera e liberista in politica economica, uno che si era poi inventato un blog, Il Daily Dish che fruttava cifre a sei zero con soli $20 di abbonamento l'anno, uno da sempre gay e conservatore, era finito tre anni fa al New York Magazine.
Che e' la rivista liberal indispensabile vademecum per la vita radical chic nella Grande Mela, da quel che si dice a dove si va a quel che si indossa a come si mangia. Ma da qualche anno gradualmente e' anche manifesto delle vittime del me too e di un politically correct aggressivo.
andrew sullivan
Bari Weiss era invece stata assunta dal Wall Street Journal al Times per dare un robusto contributo di opinione moderata e perfino conservatrice alla pagina op-ed , opinioni ed editoriali, importante branca dalla redazione separata del New York Times. Fino a ieri le piaceva suscitare forti polemiche su social come Twitter poi deve essere diventato troppo duro da sopportare. Scrive infatti che "Twitter non è nella gerenza del New York Times. Ma è diventato il suo vero direttore". Come l'etichetta appiccicatale da un articolo di Vanity Fair che la definiva la conservatrice che i radical chic amano odiare.
Sono due pezzi da novanta, intendiamoci, anche se lei si definisce "una femminista che ha sbagliato", una che è stata a sinistra e al centro, ha 36 anni ed è quindi più giovane di venti di Sullivan. Storie diverse, esperienze diverse, Ma, ripeto, due pezzi da novanta. Eppure non ce l'hanno fatta e quasi contemporaneamente hanno rinunciato a un'impresa che li stava isolando professionalmente e torturando personalmente, dimettendosi.
Ma non senza alzare il tono della polemica e senza raccontare quel che è loro capitato, soprattutto lei, la Weiss, che ha accompagnato le dimissioni con una lettera terribile pubblicata sul suo sito e sul profilo Facebook, e che inchioda la pochezza di quello che fu un grande giornale. Sullivan ha invece deciso di essere più soft, ma attenzione, se il direttore del magazine ha annunciato le dimissioni del suo collaboratore dicendo che è giusto che sulla rivista scrivano persone che ne esaltano la linea, Sullivan ha promesso di dire tutto nell'ultimo editoriale la prossima settimana.
Scrive la Weiss che al NY Times si respirava un vero e proprio clima di terrore, per le pressioni dei social media e la dittatura dei clic.
andrew sullivan
"La ragione della mia assunzione era piuttosto chiara: il fatto che il giornale non fosse stato capace di prevedere il risultato delle elezioni del 2016 era la dimostrazione che non aveva il polso del Paese che intendeva raccontare". Buone intenzioni presto tradite, il giornale non ha più alcuna intenzione di dare spazio a voci alternative, e presto è tornato a trionfare il politically correct: «Gli editoriali che appena due anni fa sarebbero stati facilmente pubblicati oggi metterebbero in difficoltà il caporedattore o il giornalista, forse fino a licenziarli. Se si ritiene che un pezzo possa avere un contraccolpo interno o sui social media non viene proprio pubblicato».
Di qui discende la condizione di vita durissima in cui la giornalista si è trovata: «Sono stata oggetto di costante bullismo da parte dei colleghi che non la pensano come me. Mi hanno chiamata nazista e razzista; ho imparato a ignorare i commenti sul fatto che “scrivo sempre di ebrei”. Diversi colleghi che sono stati amichevoli con me sono stati presi di mira da altri colleghi. Sui canali Slack dell’azienda sono costantemente sminuita, così come quel che faccio. Alcuni colleghi insistono sul fatto che devo essere allontanata se questo giornale vuole essere veramente inclusivo, mentre altri postano l’emoji dell’ascia accanto al mio nome. E altri che pure lavorano al New York Times mi chiamano pubblicamente bugiarda e bigotta su Twitter, senza paura che quel che dicono venga punito. Perché non viene mai punito».