Alessandro Barbano per corrieredellosport.it
Il Presidente del Coni Giovanni Malagò Foto Mezzelani GMT 07
Presidente Giovanni Malagò, nel giro di pochi giorni l’Italia è passata dall’indifferenza all’allarmismo per il Coronavirus, e ora fatica a passare dall’allarmismo a una responsabile preoccupazione. A farne le spese è stato lo sport?
«Da uomo delle istituzioni credo che si sia voluto dare un segnale di sensibilità e di attenzione e confermare la priorità della salute pubblica. Ma questo ha innescato una serie di reazioni a catena con le quali ci troviamo a fare i conti».
Da lunedì che si fa?
«È ciò che mi chiedono in queste ore atleti, tecnici e dirigenti da ogni dove, soprattutto quelli impegnati nelle qualificazioni olimpiche. Non posso che sperare che il rispetto delle prescrizioni adottate rimetta il Paese nelle condizioni di rientrare nella normalità. Ma nessuno lo può garantire e, di conseguenza, penso che si stia navigando a vista».
Se i divieti e le chiusure vanno avanti, c’è un danno per lo sport?
«Rappresentiamo il 2 per cento del Pil, più l’indotto. Fate voi. C’è un danno economico enorme, ma c’è anche un danno propriamente sportivo. Se ti annullo una competizione in casa, valida per la qualificazione olimpica, la tua squadra avrà meno chance. Se hai una finale di Coppa del mondo di un grande sport, che è a rischio, il danno per quella disciplina si proietta nel futuro. Ed è incalcolabile».
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L’eccesso di cautela è figlio di una preoccupazione tipica della nostra classe dirigente di precostituirsi un alibi di fronte al rischio di un dilagare del contagio?
«Non giudico, perché è facile da fuori dire che cosa si sarebbe dovuto fare. Siamo tutti bravi a fare gli allenatori e i professori. Mi metto nei panni di chi decide. E sono panni complicati. Martedì sapremo se i divieti hanno funzionato, o se sono stati una scommessa persa e pagata cara. Però, al di là delle misure che non contesto e rispetto, è vero che una certa narrazione ha incrementato l’allarme».
Come membro del Cio ha preoccupazione per le Olimpiadi?
«Parlo ogni giorno con i vertici del Comitato. Non ci sono controindicazioni sul programma olimpico».
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Ma in Giappone il premier Abe ha chiesto il rinvio di tutte le grandi manifestazioni sportive.
«Niente di diverso da ciò che facciamo noi. Quindici giorni di stop per prevenire sviluppi futuri. Ma non sono in discussione manifestazioni come gli Internazionali di tennis, Piazza di Siena o l’Europeo di calcio».
Non negherà che gli atleti siano turbati.
«Non lo nego affatto. Sono in contatto con molti di loro. Alcuni si stanno allenando all’estero, anche per abituarsi al clima nipponico estivo. E pensano di prolungare il soggiorno fuori dall’Italia. Chi sta qui ha una certa preoccupazione.
Si teme soprattutto che, andando a fare un collegiale fuori, si rischi la quarantena o si faccia fatica a rientrare. Chi ha gare a breve teme di non poter competere e, magari, si chiede se i cinesi, che sono nostri competitor in molte discipline, arriveranno oppure no. C’è di tutto. Sana preoccupazione e anche qualche timore irrazionale»
Teme più la quarantena o il virus?
«Né l’una né l’altro. Cerco di stare con i piedi piantati nella realtà».
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E allora proviamo a ragionare di sport. Mancano meno di 150 giorni ai Giochi e l’obiettivo è quello di restare nel club dei primi dieci Paesi. C’è chi dice noni, chi dodicesimi. Qual è il suo obiettivo?
«Fare meglio di Rio. Non è facile, perché ci sono nazioni nuove che si specializzano in qualche disciplina e, magari, ti portano via una medaglia. Se guardi il medagliere di quarant’anni fa, trovi solo quindici nazioni e le prime cinque da sole valgono l’80 per cento del podio. Quella concentrazione è finita. Se allora si vinceva con ottanta medaglie, ora ne bastano quaranta» [...]
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