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    “MATTARELLA NON SE NE DEVE ANDARE” – LA MELONI TEME CHE IL CAPO DELLO STATO FACCIA UNA PASSO INDIETRO SE PASSA IL PREMIERATO. ANCHE IN PARLAMENTO SERPEGGIA LA PAURA - LA RIFORMA (CHE TOCCA ECCOME I POTERI DEL CAPO DELLO STATO) ENTREREBBE IN VIGORE QUANDO LA MUMMIA SICULA AVREBBE ANCORA 3 ANNI DI LAVORO – “SE CI FOSSERO SITUAZIONI DI CRISI, COME FAREBBE MATTARELLA A DIFENDERE IL PAESE CON LE MANI LEGATE DIETRO LA SCHIENA?” – LA CRITICA DI FORZA ITALIA ALLA MELONI


     
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    Carlo Bertini e Francesco Olivo per la Stampa - Estratti

     

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    Nel centrodestra ancora riecheggiano le parole di Silvio Berlusconi di un anno fa: «Se passa il presidenzialismo, Mattarella dovrebbe dimettersi, per poi magari essere eletto di nuovo». Certo, il Cavaliere non c'è più e qui si parla non di elezione del Presidente, ma del premier, destinato però ad entrare in conflitto con il Colle: e quindi il pensiero scandaloso che espresse il Cavaliere una traccia deve averla lasciata, se la stessa Giorgia Meloni va ripetendo ai suoi che «Mattarella non se ne deve andare, non avrebbe motivo di dimettersi».

     

    È un timore che viene per ora esorcizzato, ma che è stato lo sfondo di tutte le trattative tra i partiti della maggioranza, in queste ultime ore. Lo scenario di dimissioni del capo dello Stato, una volta terminato il processo costituente, (con un referendum che la sinistra teme già di perdere) non viene sottovalutato da nessuno. Specie dai progressisti, ma non solo. Dimissioni certo non polemiche, ma come presa d'atto di una nuova situazione, stravolta rispetto all'attuale.

     

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    Tra i costituzionalisti c'è chi ne parla apertis verbis, sollevando il velo su un sospetto che circola nei Palazzi. «Questa riforma è un chiaro invito alle dimissioni di Mattarella – nota Francesco Clementi, ordinario di diritto pubblico, con ottime frequentazioni istituzionali – del resto il Presidente sarebbe drasticamente dimidiato nei suoi poteri e si porrebbe necessariamente l'interrogativo su che fare: restare altri tre anni in carica senza poter far nulla? Se ci fossero situazioni di crisi, come farebbe a difendere il Paese con le mani legate dietro la schiena? ».

     

    (...)

     

    A stretto giro, subito dopo il varo della riforma in Consiglio dei ministri, già tra i parlamentari si è aperto il dibattito su cosa farebbe Mattarella una volta approvata una riforma che tocca, eccome, i poteri del capo dello Stato: quanti hanno contatti col Colle non hanno avuto alcun sentore di una volontà di dimissioni, nondimeno ci sono politici che temono la reazione del Presidente. E se molti dubitano che arriverebbe a una decisione del genere, è più per esorcizzare una paura (forte a sinistra) o per strozzare un desiderio inconfessabile (del fronte di destra).

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    Forse nel timore di un irrigidimento del Colle di qui in avanti, non sono casuali le continue rassicurazioni della ministra Maria Elisabetta Casellati, sul canale di comunicazione con i consiglieri del Presidente; così come non è passato inosservato il riguardo con cui la premier ha trattato l'argomento dello scioglimento delle Camere: lei avrebbe preferito che premier e Parlamento stessero appaiati nel loro cammino – simul stabunt, simul cadent – «se qualcuno in Parlamento lo propone, non troverebbe la mia opposizione», ha chiarito.

     

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    Ma finora si è preferito fare diversamente per dare un'altra chance alla legislatura in caso di caduta del premier eletto, anche come segnale di mano tesa al Colle. Nella maggioranza la preoccupazione cresce, tanto che molti vanno dicendo che la riforma entrerebbe in vigore allo scadere del mandato di Mattarella. Quando in realtà nelle «norme transitorie» c'è scritto che la riforma entra in vigore alla prossima tornata elettorale, nel 2027, due anni prima del termine del secondo mandato di Mattarella.

     

    Tutto si tiene: è evidente la volontà di non irritare il Colle nella reazione piccata di Forza Italia, dietro le quinte critica con la premier, «perché è stata troppo netta nel dare per scontato il referendum, il che vuol dire chiudere le porte ad accordi in Parlamento».

     

     

     

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