DAGOREPORT - L’ASSOLUZIONE NEL PROCESSO “OPEN ARMS” HA TOLTO A SALVINI LA POSSIBILITA’ DI FARE IL…
Marco Giusti per Dagospia
"La vita, a volte, è più strana della merda." Provatela a scriverla adesso una battuta così per un film italiano. La dice Burt Young a Joe Pesci e Robert De Niro in "C'era una volta in America" dopo aver inutilmente tentato di salvare, da buon italiano, un piatto ebreo con la maionese. No. Non ha ragione Francesco Bonami sul caso Bellocchio e i magri incassi del cinema italiano.
A parte che non si capisce perché un critico d'arte scriva di cinema (ma in Italia tutti si sentono critici di cinema, come se fosse un'arte minore...), non ha ragione Bonami perché non è Bellocchio che deve fare i film che incassano. E la crisi del nostro cinema non è, purtroppo, solo la crisi del nostro cinema d'autore. Perché non è il cinema d'autore o da festival, da sempre, quello che deve riportare i soldi a casa. Certo. Se sei Martin Scorsese o Quentin Tarantino o Tim Burton o Christopher Nolan ti puoi concedere il lusso di fare un cinema d'autore che spacca anche al box office.
E sei ovviamente un bel po' obbligato, spendendo decine di milioni di dollari, a riportarli indietro. Ma nel nostro caso, con la divisione così netta che ereditiamo dalla cultura di partito anni '50 (quell'autoritratto di Guttuso per le strade di Roma mette più paura di Berlusconi...), tra film d'autore e film di genere, i film che devono riempire le sale sono appunto le commedie, i film comici. O, ovviamente, i film che hanno un costo elevato. Al di là del loro tasso di autorialità . Ma non vediamo, tra i primi dieci incassi della stagione, nessun film italiano, non vediamo un "Benvenuti al Nord", un "Immaturi - Il viaggio" o un "Posti in piedi in Paradiso". E nessuno dei tre è esattamente un film d'autore.
Insomma, da una parte c'è una crisi generale del nostro cinema, legata alla stessa crisi del paese e della nostra borghesia. Da un'altra c'è una crisi più specifica, come quella legata al nostro cinema di cassetta. Quello che dovrebbe incassare, come facevano i vecchi film, di Totò e di Franco e Ciccio, per non parlare degli spaghetti western e degli avventurosi anni '60, per mandare avanti tutta un'industria, da Visconti a Pasolini a Fellini. Il problema più generale, insomma, non è che Bellocchio non incassa, perché dovrebbe incassare un film per un pubblico molto adulto quando al cinema ci vanno solo i ragazzi?, ma che tutto o quasi tutto il nostro cinema, alto, basso e medio non è più in sintonia con il pubblico.
Ma questo pubblico, come hanno dimostrato poco tempo fa i film di Checco Zalone o dei Soliti Idioti, inutilmente massacrati da una certa ottusità critica, esiste e può anche essere molto vasto. E non è assolutamente vero che non va a vedere i film italiani. Lo ha dimostrato perfino il piccolo, recente successo di "Tutti i santi giorni" di Paolo Virzì. 508.000 euro nello scorso fine settimana, quasi quanto "Taken 2", coattissimo revenge movie con Liam Neeson che in America è primo da due settimane (la prima ha fatto 50 milioni, la seconda 22).
Il film di Virzì, apparentemente, non aveva nulla che potesse piacere al pubblico. Cast di sconosciuti, storia piccolissima e non "politica". Certo, aveva una bella copertura, 200 sale, un apparato tecnico di primissimo ordine. Ma quanto può essere costato? Un milione di euro? Se ha funzionato, lo ha fatto in gran parte per quegli aspetti per cui avremmo potuto presagirne uno scarso successo e un incasso tra i cento e i centocinquanta mila euro che ne avrebbe decretato una rapida fuga dalle sale.
E' probabile che il pubblico sia andato a vedere "Tutti i santi giorni" perché sembrava un film giovanile, semplice, fresco, senza star, non impegnativo, da vedere in coppia e quindi in contatto col nostro pubblico. Anche più di "Taken 2". Non ci si dovrebbe chiedere allora perché non è andato bene il film di Bellocchio, che era un film difficile (il caso Englaro), con cast e linguaggio impegnativo, ma perché stia andando bene Virzì. O perché "Ted" abbia incassato, alla seconda settimana, quasi tre milioni, molto più della settimana precedente. O perché vadano così bene film del tutto snobbati dalla critica come "Resident Evil 5" o "Step Up 4".
Certo, se un film come "Reality", che costerà tra i cinque e i sei milioni non va benissimo, è ovvio che ci si debba chiedere perché, visto che "Gomorra" era andato così bene. Ma lì c'era un romanzo di successo, il nome di Saviano, un titolo forte, una storia e un'ambientazione forte. "Reality" ha un titolo debole e un tema che non interessa più come tre o quattro anni fa. Ma ancora di più ci si deve chiedere perché sono andati così male certe commedie targate Medusa, che pure avranno avuto un costo. Perché non sia stato messo in palinsesto una commedia alla Brizzi-Genovese-Miniero per ottobre (certo, arriva "Viva l'Italia" di Max Bruno, ma solo a fine mese).
E perché si sia mandato al massacro un buon film come "Padroni di casa" di Edoardo Gabbriellini, con un cast forte come Germano-Mastandrea-Morandi, lanciato senza manifesti per la strada, con una comunicazione incomprensibile. Tutti film che hanno navigato, nella loro prima settimana di programmazione, sui cento-duecentomila euro. Troppo poco. Allora, non c'è solo un problema Bellocchio, c'è un problema di prodotto (abbiamo davvero dei buoni film sul mercato?), c'è un problema di comunicazione (il film di Virzì ha comunicato, gli altri molto meno) e c'è un problema di industria.
Ieri ho visto la copia "director's cut" di "C'era una volta in America" di Sergio Leone e sono rimasto davvero impressionato dalla qualità che aveva il nostro cinema negli anni '80 (e '60 e '70). Scenografia, fotografia, musica. Ovvio che, allora, l'industria americana ci fece a pezzi, massacrando il film con tagli assurdi. Non poteva ammettere prodotti che potessero competere con i loro.
Come fece a pezzi "Il Gattopardo" di Visconti e "Novecento" di Bertolucci, riletture anticapitalistiche e comuniste della storia del nostro paese. Per rifarci fummo costretti ogni volta a produrre centinaia di piccoli film di genere da mandare in tutto il mondo, a cominciare dal terzo mondo. Non è forse vero che il culto di "Django" di Corbucci, oggi omaggiato da Tarantino nell'imminente "Django Unchained", fu un hit in Africa e in Sudamerica?
Ma tutte le volte che la nostra industria ha prodotto qualcosa di ufficialmente colossale e competitivo sul mercato americano e internazionale, Hollywood ci ha dovuto punire. E abbiamo fatto la fine di De Niro che si ritrova la borsa dei soldi piena di carta di giornale e esce di scena per vent'anni. Il fatto incredibile è che oggi stiamo a parlare dei 508.000 ⬠di incasso di Virzì o del di non molto maggior incasso di Garrone o di Bellocchio senza pensare che abbiamo avuto, e potremmo riavere, un cinema di serie A o un cinema di serie B o Z da esportare in tutto il mondo se solo riuscissimo a comunicare col pubblico, tutto, a cominciare dal nostro.
E a riattivare una produzione di idee e talenti che da qualche parte, sparsi per il mondo, abbiamo ancora. No. Il problema non è Bellocchio. E non sarà neanche Bertolucci. Loro hanno fatto il loro (grande) cinema e è bene che facciano cosa vogliono. Il problema siamo noi.
Francesco Bonami Robert De Niro in âCâera una volta in America Robert De Niro in âCâera una volta in AmericaQUENTIN TARANTINO BENVENUTI AL NORD TOTO-SPAGHETTIMARCO BELLOCCHIO CON LOCCHIO NERO checco zaloneI SOLITI IDIOTITUTTI I SANTI GIORNI PAOLO VIRZI SUL SET DI TUTTI I SANTI GIORNI Fausto Brizzi
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