DAGOREPORT – REGIONALI DELLE MIE BRAME! BOCCIATO IL TERZO MANDATO, SALVINI SI GIOCA IL TUTTO PER…
DAGONOTA
Quindi, secondo gli intellettuali italiani, i giornalisti non devono più occuparsi delle vicende dei personaggi pubblici: basta foto di Belen con il nuovo fidanzato, basta spiare dentro Arcore, no foto di Formigoni sullo yacht, nessuna notizia sui preti pedofili, niente casa di Montecarlo di Fini…. perché, sapete, anche tutti questi volevano restare anonimi! Oppure l’anonimato vale solo per gli scrittori? Basta saperlo che si ritocca la deontologia professionale, si fa un comma…
Un ultimo dettaglio: è cosa nota che JD Salinger e Thomas Pynchon, pur volendo vivere da reclusi, sono stati pedinati, inseguiti, investigati, e hanno titillato la curiosità di centinaia di giornalisti, fotografi e saggisti. E manco scrivevano dietro pseudonimo, ma con i loro veri nomi. Di loro esistono foto, notizie sulla famiglia, parecchi dettagli privati. Eppure il loro desiderio di vivere fuori dall'interesse mediatico ha finito solo per alimentare tale interesse (e le vendite dei libri).
Ribadiamo: se Anita Raja voleva davvero restare anonima, poteva fare come Salinger e Pynchon ed evitare di dare decine e decine di interviste una volta raggiunta la fama internazionale. Nelle quali non parlava solo dei suoi personaggi, ma anche della sua vita privata, e dei sospetti che puntavano su suo marito Domenico Starnone (''Ho grande stima di lui, mi sento in colpa per lo scrutinio cui viene sottoposto, ma sono sicura che capirà'').
Quelle interviste – così come la sua candidatura al premio Strega – hanno solleticato ancora di più la curiosità dei suoi milioni di lettori, cosa che ha reso giornalisticamente inattaccabile l'inchiesta di Claudio Gatti.
L’AMACA
Michele Serra per “la Repubblica”
Se il clamore e le discussioni attorno al “caso Ferrante” hanno sconfinato, e di molto, dall’ambito letterario, è perché la questione toccata è nevralgica. E non riguarda solamente gli scrittori famosi o altri famosi assortiti, ma ognuno di noi contemporanei, immersi nella società di massa. La questione, all’osso, è se la presenza pubblica sia obbligatoria o facoltativa.
Se ancora esista — come sostengo, come spero — un diritto all’assenza, oppure questo diritto sia inconciliabile (mi viene da dire: eticamente inconciliabile) con il dovere di apparire, di essere raggiungibili, di essere a disposizione. Sì, un dovere. Rivendicato dai tanti che hanno considerato doveroso — appunto — il disvelamento dell’identità di Ferrante, perché “il pubblico deve sapere”. Che voglia o non voglia, quella persona, comparire in pubblico, è evidentemente considerato un dettaglio.
Del resto su altra scala (meno “qualificata”, ma ben più vasta e invasiva) c’è anche chi ritiene sintomo di asocialità — di puzza sotto il naso, si dice al bar — non avere una pagina Facebook o un account Twitter.
L’impressione — parlo per esperienza personale — è che il diritto all’assenza sia, in quel caso, nemmeno percepito: viene accolto come una stravaganza “di nicchia”, per giunta oltraggiosa nei confronti dei miliardi di presenti. Difficile far capire che si sta parlando di identità. Di un “io sono mio” che, in tempi di massificazione, è il più precario, il più crivellato degli stendardi.
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