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“IL NOSTRO PRIMO INCONTRO? LUI IN CALZAMAGLIA, FARFALLINO E VESTAGLIA, IO IN MINIGONNA E PARRUCCA ROSA. LA PRIMA COSA CHE MI DISSE? CHEPPALLE!” – LA SCRITTRICE ANNA PAVIGNANO RACCONTA LA SUA STORIA CON MASSIMO TROISI: “ERAVAMO UNA COPPIA APERTA, MA IO SOFFRIVO. MI FECE CAPIRE CHE NON VOLEVA FIGLI PERCHÉ NON VOLEVA ASSUMERSI ALTRE RESPONSABILITÀ” – IL RAPPORTO CON BENIGNI (“PER GIOCO SI CHIAMAVANO FREUD E MARX”) E I PROBLEMI AL CUORE: “L’INTERVENTO A CUI SI ERA SOTTOPOSTO PROVOCAVA UNO STRANO TICCHETTIO. GLI CHIESI CHE COSA FOSSE E MI RISPOSE CHE LUI E I SUOI AMICI DI NAPOLI ERANO DEDITI AL FURTO DI OROLOGI”
Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera” - Estratti
Anna Pavignano, se lo ricorda il primo incontro con Massimo Troisi?
«Altroché. Io avevo una minigonna e una parrucca rosa, ma questo è nulla in confronto a quello che indossava lui».
Cioè?
«Calzamaglia, farfallino e vestaglia».
Dove vi siete incontrati?
«In televisione, a Torino. Io studiavo e facevo la comparsa per arrotondare».
La prima cosa che lui le ha detto?
(...)
«Mi disse: “Cheppalle!”».
Ma come?
«Quelle registrazioni erano sfibranti, si stava fermi ad aspettare per ore. Ci guardammo, pensammo la stessa cosa ma alla fine a dirla chiaro e tondo fu lui».
Lei torinese, famiglia solida, agiata. Lui napoletano, origini più umili.
«Ci legò l’attrazione tra due persone diverse ma complementari. Da lui ho imparato a lasciarmi andare, lui diceva di aver preso da me un certo rigore nella scrittura».
Lei in questi giorni esce con un romanzo, Come sale sulla pelle . Assieme a Troisi, ha scritto quasi tutti i film che lo hanno reso famoso. La scrittura ha guidato la sua vita?
«Sì, nel cinema e da qualche anno nella letteratura. Sono figlia di due genitori che avrebbero voluto diventare “qualcos’altro” e che ci hanno sempre raccomandato di fare un lavoro senza padroni».
(...)
Soffriva già di cuore? (Massimo Troisi è morto il 4 giugno del 1994 per un attacco cardiaco, ndr )
«Aveva subito un’importante operazione alla valvola mitrale. Ma ci scherzava sopra.
Nei primi tempi della nostra relazione ci trovavamo spesso a casa mia, con Lello, Enzo e altre mie amiche. L’intervento a cui si era sottoposto provocava un leggero e strano ticchettio. Gli chiesi che cosa fosse e siccome lui amava prendermi in giro, mi rispose che lui e i suoi amici di Napoli erano dediti al furto di orologi».
La verità era ben diversa.
«Lui sapeva di avere un’aspettativa di vita ridotta. D’altra parte, il suo vero sogno era quello di fare il calciatore. Era anche bravo, ma con quel cuore capriccioso ha dovuto lasciar perdere».
Dunque, primo incontro nel 1977. Però voi vivevate in due città lontane.
«Lunghe lettere, soprattutto mie. Lui scriveva pochissimo, ma una me la ricordo bene. Era un foglio bianco prestampato, al fondo del quale si leggeva: “Nell’ultima riga c’è scritto ti amo”».
La cosa più folle che ha fatto in quel periodo?
«Treno da Torino a Bari, solo per vederlo un’ora, e poi di nuovo il treno per Torino».
Il luogo più folle dei vostri incontri, all’epoca ancora semi clandestini?
«Un’auto».
In che senso?
«Lui era in tournée, tappa in Calabria. Io lo raggiungo a Palinuro, ma non c’era un posto per dormire. Così dormimmo in auto, sulla spiaggia».
Non è così folle.
«Non le ho ancora detto che non eravamo soli: io, lui, Lello, Enzo e tutte le maestranze della Smorfia. Tutti in auto, uno sopra l’altro».
Poi Roma. Casa insieme?
«Di fatto sì, ma nessuno dei due ha mai detto apertamente “Andiamo a vivere insieme”.
Io stavo a casa sua, punto. Per un periodo abbiamo vissuto con Lello e a volte con Enzo».
Un ricordo?
«Io e Massimo facevamo “i signori del castello” e stavamo spesso in camera a scrivere, così Lello e qualche altro che capitava in casa si dedicavano a esperimenti culinari. Il problema è che quella gara consisteva nell’aggiungere cose, quindi ne uscivano pastoni immangiabili».
Lei e Troisi siete stati insieme per otto anni. Che coppia eravate?
«Una coppia aperta».
Vuole spiegare meglio?
«Semplice. Massimo non ha mai negato di avere, in contemporanea, altre storie.
E me le raccontava, me le raccontava tutte nei dettagli».
E lei?
«Sinceramente?».
Sì.
«Mi sforzavo di trasformare la gelosia in un esercizio razionale e politico: all’epoca si credeva davvero nella coppia aperta, nel disimpegno e nel “non possesso” dell’altro o dell’altra».
Ma che cosa provava davvero?
«Da una parte, il fatto che l’uomo che amavo mi raccontasse le sue avventure mi faceva illudere di controllare quella storia, di guidare il nostro rapporto. Ma io soffrivo».
Mi sembra naturale.
«Sì, ma mi creda: negli anni Settanta e Ottanta si era genuinamente convinti che altre forme d’amore e di famiglia fossero possibili. E, almeno all’inizio, quando le sue avventure erano qualcosa di temporaneo e leggero, ho fatto funzionare un grande amore. Se avessi ceduto, penso che non saremmo rimasti insieme a lungo».
Com’era questo grande amore?
«Divertente, folle, stimolante, creativo. Scrivevamo insieme i suoi film e nei suoi film mettevamo anche le nostre tensioni di coppia, i nodi sentimentali. C’è tanto di noi, per esempio, nei guai di cuore di Pensavo fosse amore... invece era un calesse ».
Dove Tommaso dice a Cecilia che «uomo e donna non sono fatti per il matrimonio».
«Esattamente quello che Massimo pensava. Me lo ha detto sin dai primi tempi».
Lei avrebbe voluto figli?
«Sì e infatti una volta, cogliendo l’occasione di una coppia di amici che aspettava un bambino, mi lasciai andare a un entusiasmo eloquente. Ma lui non raccolse. Tempo dopo me lo disse chiaramente: non voleva figli perché non voleva assumersi altre responsabilità oltre a quelle che il lavoro gli imponeva».
Possiamo dire che l’eterna adolescenza di Troisi è stata sia il suo fuoco d’arte che la sua principale fonte di contraddizione esistenziale?
«Anni dopo che ci eravamo lasciati, poiché abbiamo sempre mantenuto un bellissimo rapporto, sia professionale che personale, gli chiesi quale fosse il suo grande rammarico. Mi rispose: “Non essere riuscito a costruire un legame stabile”».
Com’era la sua eterna adolescenza?
«Giocava, giocava sempre. Ricordo quando tutti ci rinchiudemmo in un castello nei pressi di Anghiari per scrivere Non ci resta che piangere. Giuseppe Bertolucci non riusciva a scrivere una riga: Massimo e Roberto Benigni avevano trovato un biliardo e continuavano a sfidarsi fingendo di essere l’uno Freud e l’altro Marx. Io e Nicoletta (Braschi, ndr ) eravamo disperate».
Pino Daniele.
«Per Massimo era molto più di un amico, era una specie di faro della musica. Ma fu Troisi a farmi conoscere Rino Gaetano. Io, in cambio, gli feci conoscere Guccini».
Racconti.
«Massimo non lo conosceva e sulle prime non gli piacque, lo riteneva poco “solare” rispetto ai suoi gusti. Poi però lo capì a fondo e così quando si conobbero, nella trattoria Da Vito di Bologna, cominciarono un siparietto: “Io ti ammiro”, disse Massimo. “No, io ti ammiro di più”, ribatté Guccini e così per dieci minuti».
Un vezzo di Troisi?
«Stava sempre a letto. E a letto riceveva i collaboratori, faceva le riunioni, mangiava».
Se oggi potesse incontrarlo di nuovo che cosa gli direbbe?
«Una cosa sola: torna, ti prego».
anna pavignano massimo troisi
TROISI BENIGNI
anna pavignano nel documentario di mario martone laggiu qualcuno mi ama
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