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Giuliano Ferrara per "Il Foglio"
Cari lettori, vi ritrovate un fogliante in chief che si definisce "berlusconiano tendenza Monti". Così ieri nella rubrica delle lettere in risposta ai molti antipatizzanti di Monti. So che per molti di voi è uno scandalo, altri lo prenderanno come un paradosso dei nostri o addirittura come uno scherzo, un barrito. Ma era giusto che apparisse alla luce, che quella formula stravagante, bislacca, luccicasse un istante.
Luce si fa per dire. In un paese come questo è diritto di chiunque pensare a un nuovo caso di trasformismo, e nemmeno tanto scaltro. Ma come? L'elefante ha battagliato per anni in nome della religione del maggioritario, religione addirittura. Ci ha fatto mille lezioncine sull'autogoverno, sull'alternanza decisa dagli elettori direttamente. Ha citato Lincoln e chissà quanti altri padri e maestri dell'idea liberale di democrazia, fondata sulla "paziente attesa" del responso delle urne come fondamento dell'autorità di governo.
Voleva abolire la quota proporzionale prevista dal Mattarellum, e mandò gentilmente a quel paese Berlusconi che all'appuntamento del referendum abrogativo non si fece trovare, perché il Cav. ha mostrato dopo il 1994 una vena da proporzionalista, e mostra sempre vene diverse se gli convenga, pragmatico e sanamente opportunista com'è.
L'elefantino è sempre stato un aedo della filastrocca "o di là o di qua", un cacciatore di democristiani ribaltonisti, infidi mestatori del parlamentarismo. Anche l'adesione alla Repubblica dei partiti, come da Costituzione del 1948, si qualificava negli anni Ottanta con scelte nette di popolo e democrazia, basti pensare alla battaglia referendaria sulla scala mobile dei salari oppure sulla responsabilità civile dei giudici dopo il caso Tortora.
Tendenza Monti? Ma i famosi poteri forti gli sono stati sempre un po' sulle palle, sebbene ne conosca la debolezza e riconosca all'establishment di essere una componente indispensabile di un paese civile: è l'unico giornalista italiano che si consente di chiamare "padroni", arcaismo senza eufemismo, i capi delle organizzazioni datoriali cosiddette, che voluttuosamente fustiga per la loro naturale spinta al concertativismo corporativo. Si è battuto come poteva, sperando di vincere e in nome del Berlusconi che aveva conosciuto e che aveva anche un po' in mente, contro la soluzione tecnocratica, per le elezioni sotto la neve.
Manifestazioni, le uniche, e denunce tempestive: meglio in mutande che costretti a tornare indietro dagli spocchiosi del Palasharp, meglio vivi; e poi di nuovo a Milano nel novembre scorso un diniego gridato alla scelta del getto della spugna con soluzioni notabilari e tecniche. Ha detto in tutte le salse che nei paesi civili, non solo l'America ma anche la Grecia, l'idea di un curatore tecnico delle cose politiche sarebbe stata respinta come un caso di subalternità istituzionale, una menomazione perfino antropologica dell'identità nazionale, un golpe anche se in guanti bianchi.
Di più. Sapendo come stavano rovinando le cose, il giornale che avete tra le mani aveva fatto per tempo la battaglia per rimettere il governo e Tremonti sulla strada delle politiche di riforma e di crescita, perfettamente inascoltato salvo rare eccezioni. E ora il trasformista ci rifila l'elogio di Monti e Fornero, del contributivo previdenziale per tutti, dell'incremento dell'età pensionabile, delle tasse sulla casa e dell'aumento dell'Iva, delle liberalizzazioni e semplificazioni, e soprattutto della riforma del mercato del lavoro. Viva la faccia di Piero Ostellino, compagno di tante battaglie, che offre la sua voce autorevole, isolata, alla critica pubblica di un governo che fa tecnocrazia senza liberalismo, e ci soffoca di tasse e simboli paragiacobini come la guerra agli evasori fatta spettacolo.
Cari lettori, riflettete meglio sulla cosa. Il trasformista che è in me, e spero possa entrare anche in voi, ama la decisione politica seria. Sarà anche un trasformista, ma è un decisionista. Cominciò ad apprezzare la signora Thatcher, figlia di droghiere che dava di vigliacchi ai notabili dell'Inghilterra pietrificata, quando era ancora comunista, sia pure in uscita da quel mondo di decisioni sbagliate. Ammirava Reagan perché anche lui chiamava la gente a decidere liberamente del proprio futuro, senza affidarlo ai guru dell'irresponsabilità sociale, quel partito occidentale pseudoliberal che ciucciava latte ideologico dalle mammelle dell'impero del male.
Negli anni Ottanta scelse Craxi perché diceva come stavano le cose e metteva ai voti la politica riformatrice del suo governo e mandava i carabinieri in una base americana a eseguire le disposizioni diplomatiche del governo italiano verso i dirottatori in fuga dell'Achille Lauro, giusto o sbagliato, costasse quel che costasse (e qualcosa è costato). Scelse Eltsin contro Gorbaciov, perché fu l'ubriacone orso e molesto che ruppe il vecchio sistema, insediandosi in una storia di liberalizzazioni rivoluzionarie e violente e predatorie fatta di mille schifezze ma anche di libertà finalmente garantite, mentre Gorbaciov voleva riformare il sistema senza sciogliere gli equivoci e le miserie grandi e terribili dell'antico regime.
Scelse Berlusconi perché fu il garante carnale, ispirato e folle, di un paese che non si sottometteva alle élite vendute ai pubblici ministeri, e non accettava un'idea codina di giustizia politica, e diceva che voleva tagliare le tasse, riformare le pensioni, liberalizzare il mercato della produzione dei beni e dei servizi, cancellare il divieto alla libertà d'impresa stabilito con l'articolo 18 e successive interpretazioni, lasciare che il popolo facesse della propria vita quello che credeva utile e giusto.
Comunista di tendenza amendoliana e socialdemocratica. Anticomunista di tendenza americana e di confessione pugnace. Craxiano di tendenza politica non esattamente pentapartitica. Berlusconiano tendenza Veronica, all'epoca in cui le gioie di un matrimonio calmieravano certe estremizzazioni populistico-gladiatorie del capo. Berlusconiano tendenza Bicamerale, quando c'era da riformare la Costituzione sul serio.
E ora Berlusconiano tendenza Monti, un'altra tendenza che non fa tendenza, visto che il preside realizza quel che il Cav. prometteva di fare, ha cercato di fare, quel che è nelle corde di un programma di cambiamento, Marco Biagi versus Sergio Cofferati per esempio. Ecco. In tutta questa confusione trasformista, in questo amore per la politica grande che è pieno di ambivalenze e anche di equivoci, un filo conduttore c'è, e robusto. Almeno lo spero.
Poi c'è la questione dell'avversario ideologico, editoriale, politico, di establishment. Quella è questione evidente di primo acchito. Dove stavano De Benedetti, Scalfari e compagnia, e anche molti terzisti amici condannati al gioco del cerchio e della botte in tutti questi anni? Sempre dall'altra parte. Dove stavano e stanno i manettari? Sempre dall'altra parte. Dove stava la cultura azionista lealmente e slealmente avversata? Sempre dall'altra parte. Dove stavano gli intellò e i vari fighetta dell'etica e della spiritualità repubblicana, i cacciatori di servilismo altrui imbevuti della loro schiavitù psicologica e morale? Sempre dall'altra parte.
Dove stavano gli scientisti, i rimodulatori della vita umana, i falsi libertari, i falsi miscredenti e antipapisti da trivio? Sempre dall'altra parte. Il filo robusto di un realista, che rischia ogni minuto il trasformismo e longanesianamente non si appoggia troppo ai principi, nel timore che si pieghino, dunque c'è. Ed è testimoniato, se non dai miei idoli provvisori, almeno dal fronte permanente degli avversari, dalle loro idee e manovre. Quello, stranamente, non è mai cambiato e non cambia mai. No trasformismo dell'inimicizia politica. Pro domo sua, dall'elefantino, sua sede e tendenza.
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