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Fulvia Caprara per la Stampa - Estratti
Dal punto di vista delle esperienze cinematografiche, Barbora Bobulova è una sopravvissuta. Ha lavorato, ricavandone premi e riconoscimenti, con maestri venerati come Marco Bellocchio e Nanni Moretti, esordienti di razza come Paolo Franchi e Roberto De Paolis, autori amatissimi come Giovanni Veronesi, Gabriele Muccino, Ferzan Ozpetek, Michele Placido, Sergio Castellitto.
Il suo segreto è nella tenacia slava e in un docilità solo apparente: «Mi sarebbe piaciuto avere un animo un po' più rivoluzionario, ma nessuno, in famiglia, mi ha mai trasmesso quest'attitudine. Non credo di essere una Giovanna d'Arco, non ce l'ho nel sangue, tendo sempre ad arrivare dappertutto in punta in piedi, come se dicessi "scusate se esisto"». Per capire meglio, bisogna fare qualche passo indietro, verso le origini, a Martin, in Slovacchia, dove Barbora Bobulova è nata nel 1974.
Quando è arrivata a Roma, nel 1989, era un'immigrata, una bella ragazza dell'Est sbarcata in Italia in cerca di fortuna. Che ricordi ha di quel periodo?
«Cercavo casa a Roma e appena dicevo che facevo l'attrice e venivo dalla Slovacchia, mi sbattevano tutti il telefono in faccia. Trent'anni fa c'erano tante ragazze slave ingaggiate per venire a fare le prostitute qui da voi, era una cosa talmente diffusa da essere diventata materia di fiction e film, un cliché, identico a quello che oggi viene applicato alle ragazze venute dall'Africa. Poi, però, dopo tanti incontri negativi, arriva quello con persone che, fortunatamente, sono libere da pregiudizi. Accade di rado, ma è come trovare una perla».
Che cosa è rimasto in lei, dopo tanti anni di vita in Italia, delle sue radici familiari?
«Sono cresciuta in un Paese dove non era possibile esprimere le proprie opinioni. Il retaggio del Kgb è marcato, succede spesso, tuttora, che mio padre mi dica "non parliamo di questa cosa al telefono", teme che ci sia qualcuno in ascolto. Altre volte mi dice "non ti immischiare in politica, non parlare di argomenti che ti possono danneggiare". Quando ero bambina era tutto pericoloso e per lui è ancora così. È una cosa che mi fa impressione, ma è la verità».
(...)
Se ripensa ai tempi del Principe di Homburg, come vede se stessa?
«Una bambina inconsapevole, anche un po' incosciente, non parlavo nemmeno italiano. Però è strano, quasi quasi lavorare con Bellocchio oggi mi ha messo più ansia di allora. A 20 anni ti viene tutto facile, eravamo tutti più rilassati e spensierati. Avevo un coraggio, mi buttavo... mi sembrava di poter spostare il mondo».
Ha due figlie adolescenti. Che tipo di madre è?
«Cerco di fare del mio meglio, sicuramente compio errori, ma sicuramente mi comporto in modo molto diverso da quello dei miei genitori. Provo a essere il più comunicativa possibile, mentre io con loro non parlavo per niente. Cerco il dialogo, tendo a confessare debolezze e fragilità, cosa, adesso, piuttosto difficile. Le figlie sono nel pieno della fase conflittuale, parlare non è più semplice come prima».
Ha dichiarato di non avere un buon rapporto con i social. Come si regola, in questo campo, con le sue figlie?
«È una lotta impari. I nostri ragazzi sono immersi nel mondo dei cellulari, vietarne l'uso è possibile. L'unica cosa che faccio è rompere le scatole, ricordare i rischi dell'essere perennemente connesse, delle manipolazioni legate al web. Sembro un disco rotto, loro mi ripetono "ce lo hai già detto" e io insisto».
(....)
Secondo lei, nel mondo del cinema, le donne hanno fatto passi avanti oppure no?
«Qualcosa è cambiato, ma la parità è ancora lontana. Di sicuro ci sono più registe, gli ultimi film italiani belli sono firmati da donne, penso a Gloria!, a Vermiglio, al Tempo che ci vuole. I ruoli maschili interessanti sono molti di più rispetto a quelli riservati alle donne. I maschi possono sbizzarrirsi, soprattutto quando si tratta di personaggi realmente esistiti. D'altra parte la storia è stata raccontata sempre dal loro punto di vista, come se l'avessero scritta solo gli uomini».
All'ultima Mostra di Venezia ha indossato un abito bellissimo e poi ha dichiarato che, in passato, non avrebbe mai osato vestirsi in quel modo. Perché?
«Mi dava un'aria molto appariscente, e io ho sempre avuto il timore di esserlo. Gli sguardi maschili mi imbarazzavano, non amavo sfoggiare la bellezza, forse perché mi interessava dimostrare che sapevo fare altro. Adesso mi sento più libera, anche come donna, non ho più paura di apparire seducente. Adesso, quando vado su un tappeto rosso, voglio essere bella. Peccato averlo capito solo ora, a 50 anni».
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