UN "BISCIONE", TANTE SERPI! GLI AVVERSARI DI BIANCA BERLINGUER A MEDIASET LAVORANO PER…
Malcom Pagani per Vanity Fair
Alberto Barbera conosce il senso dell’umorismo: «Mi sento sempre un allenatore sull’orlo dell’esonero, un prodotto da frigo, uno yogurt in scadenza. So solo che ho un contratto rinnovabile di 4 anni in 4 anni, e che destino mi tocchi poi in sorte esattamente non lo so. La stabilità del mio posto di lavoro dipende dal cda della Biennale che dipende a sua volta dalle nomine governative e così via».
Da una decade, questo signore nato nei dintorni di Biella – «Nella sala parrocchiale di Occhieppo Inferiore, il mio paese, i film di prima visione arrivavano con due anni di ritardo» – dirige con cognizione e stupito fatalismo una delle mostre cinematografiche più importanti del mondo: «Se penso che la prima volta venni a Venezia per partecipare a un seminario su Bertolucci mentre facevo il militare ad Aosta, meravigliarmi è il minimo».
Si sente un provinciale?
«Lo sono. Come dice Paolo Sorrentino, la provincia somiglia a una stanza buia in cui vai a sbattere sempre contro le stesse persone. Il luogo in cui sono nato era lontanissimo da tutte le grandi trasformazioni che preludevano al boom degli anni ’60 e la prima volta che la vidi, Torino, la città da cui non mi sono più mosso, mi sembrò New York. Ma non rinnego quel che la provincia mi ha dato. Valori autentici e senso di solidale condivisione. Anche se oggi prendo voli transoceanici, le radici sono nel mio passato».
Com’era il giovane Barbera?
«Un idealista che pensava si potesse cambiare il mondo. Amavo il cinema, ma non avevo idea di come trovare un’occupazione per seguire la mia passione. Sono stato fortunato, ho iniziato a lavorare per la Gazzetta del Popolo come critico e poi al Festival di Torino. Sono stato segretario generale e poi direttore compiendo tantissimi errori di ingenuità e inesperienza. All’epoca me ne vergognavo tremendamente, poi ho capito che senza sbagliare non sarei mai cresciuto né avrei mai potuto imparare una professione che all’epoca era situazionismo puro, scommessa ardita e, a essere benevoli, tentativo creativo. Non c’era nessuno che ti insegnasse a dirigere una mostra».
Oggi?
«Sta diventando un mestiere perché i festival sono diventati un sistema, un circuito alternativo alla distribuzione tradizionale e ti devi rapportare con un’infinità di soggetti anche in campo commerciale. Se non sai costruire una rete di rapporti che implicano conoscenze specifiche vieni escluso».
Lei ce l’ha?
«Me la sono creata nel tempo, ma il mio è un mestiere strano. Chiudi una mostra e l’anno dopo hai l’impressione di dover ricominciare da capo come se si fosse azzerato tutto e ogni cosa fosse rimessa in discussione».
È solo un’impressione?
«Dal punto di vista dei contenuti è una realtà. Ma ciò che capitalizzi veramente da una stagione all’altra è la capacità di sedimentare rapporti a livello internazionale che garantiscono affidabilità. Se uno studio decide di venire a Venezia, non lo fa al buio. Sa cosa lo aspetta e che accoglienza riceverà».
La apprezzano. La criticano.
«C’è sempre qualcuno che avrebbe fatto una selezione migliore della tua, un altro che sarebbe stato un direttore migliore. D’altra parte, come diceva Truffaut: “Tutti hanno due mestieri. Il proprio e quello di critico cinematografico”».
Il governo parla di tante cose, quasi mai di cultura. La preoccupa?
«Le cose si possono sempre vedere da un’angolatura diversa: il bicchiere può essere sempre mezzo pieno o mezzo vuoto».
Guardiamolo mezzo vuoto.
«Il silenzio del governo sul tema potrebbe preoccupare. Così come l’apparente assenza di una strategia specifica per la cultura che sostenga, rafforzi o implementi le potenzialità sul territorio. Visto che l’Italia è forse il Paese al mondo più ricco di arte e di eventi culturali di alto livello, me lo aspetto».
Guardiamolo mezzo pieno.
«Il silenzio sul tema è garanzia di autonomia e di continuità. Insieme agli altri componenti della Biennale ho avuto occasione di passare con il ministro Alberto Bonisoli un’intera giornata. Ha ascoltato tutti e parlato con tutti, dimostrando di sapersi informare e – a differenza di alcuni suoi predecessori di cui sarebbe inutile fare i nomi – di saper sentire».
E l’evocato spoil system, abito d’ordinanza di ogni esecutivo della storia repubblicana?
«Personalmente, e non parlo a difesa di me stesso, è una logica sbagliata e fallimentare che non permette di programmare. Mi pare che il governo – ed è incoraggiante – voglia operare in un’ottica di continuità, senza furia iconoclasta e senza quello slogan un po’ vuoto – “Bisogna garantire il ricambio” – che radeva al suolo, al di là del merito, tutte le esperienze precedenti».
In effetti non le hanno ancora dato del radical chic.
«Per adesso siamo salvi». (Sorride).
Che film farebbe vedere a Salvini? Quello su Stefano Cucchi?
«Il film su Cucchi non dovrebbe vederlo solo Salvini o chi si occupa di ordine pubblico, ma chiunque abbia a cuore la salute della società. A Salvini mostrerei Human Flow di Ai Weiwei sul fenomeno biblico della migrazione, di fronte al quale qualsiasi ricetta di piccolo cabotaggio si rivela fallimentare».
Sorprese dal concorso?
«The Mountain, di Alverson, un regista americano indipendente, il film dei Coen, il Suspiria di Guadagnino».
Il suo primo approccio con il cinema?
«A quasi 5 anni. Era un film di cappa e spada. Ebbi paura. Vidi una scena forte e uscii subito».
Il cinema deve avere paura del cambiamento, di giganti come Netflix che secondo alcuni fagociteranno la vecchia sala?
«Le rivoluzioni tecnologiche hanno un’influenza pazzesca sulla nostra vita quotidiana e il futuro è sempre un’incognita. Che faccia paura è giusto. Il cinema e la sala, però, non solo non moriranno mai, ma di certo non devono temere Netflix, che non ucciderà nessuno. Ma gli esercenti devono cambiare pelle e capire che non possono più interpretare il loro lavoro come 50 anni fa. Accettare le sfide e la condivisione su piattaforme diverse».
Di lei gli apologeti lodano la serenità, i detrattori sostengono sia una maschera.
«Io sono una persona che introietta molto e manifesta all’esterno pochissimo di quel che sente. Adesso, molto più di quanto non fossi in gioventù, sono abbastanza sicuro di me. Ma non ho perso l’abitudine di preparare tutto in anticipo. L’imprevisto preferisco prevenirlo che risolverlo con la prodezza in extremis».
Secchione o perfezionista maniacale?
«Perfezionista maniacale, come mio padre che mi insegnò che non esiste dettaglio che conti più del tutto e che ogni cosa va curata a tempo debito. Organizzare un festival è un lavoro complesso, far giungere la macchina al traguardo dipende da moltissimi fattori».
Come vanno i rapporti con la Festa di Roma?
«Ora, di serenità e tranquillità reciproca».
Prima?
«C’è stato un momento in cui Roma sognava di soppiantare Venezia. Il sottotesto legato alla nascita di quell’evento parlava chiaro. Nel tempo, Roma ha dovuto modificare più volte la propria identità e ridimensionare le proprie ambizioni. Contestualmente, forse anche grazie alla concorrenza, Venezia si è data una scossa e ha investito, ha rinnovato, è tornata a essere un appuntamento imperdibile. Roma intanto è diventata una bella festa per il pubblico, con una dimensione prevalentemente locale. Siamo fuori dalla conflittualità, sono ambiti diversi».
Quante pressioni riceve per mettere un film o un altro in concorso?
«Quelle fisiologiche. Se sono convinto, dico sì. Se un film non mi piace, no. Anche se dire certi no non fa mai piacere, alla fine ti rispettano di più».
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